Cross culture

I “falsi amici” dell’interculturalità

I “falsi amici” dell’interculturalità
Scritto da Laura Girelli

Chiunque abbia imparato una lingua straniera si è imbattuto nella trappola dei cosiddetti falsi amici, quelle parole ambigue apparentemente simili al nostro idioma ma dal significato sorprendentemente diverso.

Così horse in inglese non vuole dire orso ma cavallo, e se in Spagna chiedete il burro non vi portano nulla da spalmare ma un asino. Il vero poliglotta si distingue dal principiante volonteroso anche per la capacità di evitare costruzioni sintattiche e uso di termini che rimandano in modo goffo e poco efficace ad una pseudo-somiglianza tra lingue strutturalmente diverse.

Questa trappola mentale si estende spesso dall’incontro tra lingue all’incontro tra culture, generando ostacoli subdoli ad un autentico scambio interculturale, inteso come “processo di scambio di vedute aperto e rispettoso fra persone e gruppi di origini e tradizioni etniche, culturali, religiose e linguistiche diverse, in uno spirito di comprensione e di rispetto reciproci”. (Libro bianco sul dialogo interculturale, Consiglio d’Europa)

Nella prospettiva dell’individuo e delle culture “ospitanti”, la chiusura etnocentrica per cui l’Altro portatore di diversità è semplicemente da respingere o dominare – in politica, nelle relazioni internazionali, così come nei luoghi li lavoro e come pratica manageriale – è in fondo una posizione trasparente, facilmente riconoscibile, rispetto alla quale si possono intraprendere azioni formative e informative: si parla infatti a tutti i livelli di educazione all’interculturalità.

Per proseguire la metafora linguistica, se uno è completamente a digiuno della lingua dell’Altro si può sempre invitarlo ad apprenderla, fornendogli gli strumenti. Più subdola è la posizione di quelli che, avendo già adottato in buona parte una prospettiva cosmopolita e comportamenti tesi alla comprensione e al rispetto di cui sopra, nell’entusiasmo producono quelli che chiamiamo “falsi amici” culturali.

Il primo, tipico di una prima fase di incontro, è la tendenza all’assimilazione, per cui all’insegna del noto detto “una faccia, una razza”, così come l’ospitato (l’individuo migrante a qualsiasi titolo) assume acriticamente comportamenti, stili di vita e di pensiero della cultura adottiva, l’ospitante (l’individuo autoctono, o appartenente alla cultura dominante) tende a minimizzare ingenuamente qualunque differenza. Non si tratta della assimilazione nel suo significato di pretesa prepotente, che implica necessariamente un giudizio di valore sulla cultura del migrante (se vuoi essere accolto, dimenticati da dove vieni e conformati), ma della sua versione soft, politically correct e quindi più sottile e ambigua. Si tratta di un comportamento difensivo che mira a fare economia di risorse cognitive e psicologiche, ma che non regge la prova del tempo e rischia di fare esplodere conflitti non riconosciuti.

I “falsi amici” dell’interculturalitàUn esempio leggero? Un manager italiano di un gruppo multinazionale che per fare team building decide di coinvolgere, senza nessuna mediazione e gestione della differenza, gli uomini del suo team (di provenienza multiculturale) in una squadra di calcio perché sono tutti giovani, a chi non piace fare una bella partita e bersi poi una birra?”.
Conflitti etnici, una diversa concezione dell’agonismo, della vittoria e della sconfitta, una differente confidenza con la fisicità e il pudore, e anche una diversa relazione con la birra, hanno reso questa bella iniziativa un disastro organizzativo dopo le prime due partite.

La seconda trappola è l’idealizzazione, per cui l’Altro diventa una categoria protetta e le sue caratteristiche uniche e pregevoli in quanto tali. E’ questo il caso in cui lo stereotipo funziona in positivo, ma risulta non meno distorcente: l’Altro, infatti, non viene mai incontrato nella sua semplice realtà di persona, con le sue luci e le sue ombre.

Un esempio di questo, meno divertente, riguarda la reazione che ho raccolto tra alcuni operatori del sociale, tutte persone intelligenti e di buona volontà, di fronte ai confusi e tremendi fatti di Colonia. Per loro era “impossibile” che un Rifugiato Politico – eroe tra i migranti, vittima di storie terribili e quindi secondo loro intrinsecamente sensibile – si macchiasse dei reati contestati. Così come il Tedesco è Preciso, l’Africano ha-il-ritmo-nel-sangue, il Giapponese è Obbediente, ecco nascere la nuova categoria ideale del Rifugiato Eticamente corretto.

Un rimedio per stanare i “falsi amici” dello scambio interculturale? Rischiare ogni volta un ascolto autentico di chi incontriamo e domandarsi da capo: chi sei davvero tu? E chi sono io rispetto a te?
Faticoso, forse, ma appassionante come un viaggio che non finisce mai.

Autore

Laura Girelli

Prima Laurea in Lettere con specializzazione in Linguistica e semiotica, poi Scuola di Specialità in Psicologia analitica, infine Scuola di Post-Specializzazione in Psicoanalisi della Coppia. Psicoterapeuta con formazione junghiana e relazionale, socia SIPRe, Società Italiana Psicoanalisi della Relazione.
A lungo consulente su temi di strategia, marketing e organizzazione, ha fondato e diretto dal 1999 al 2009 Ricerche Valdani Vicari.

Attualmente affianca all’attività clinica quella di Senior Consultant, in esclusiva per Wise Growth, con specificità per i temi legati alla leadership, al diversity management e all’interculturalità. È certificata IAP di THT (Trompenaars Hampden – Turner) per la consapevolezza interculturale.
È autrice di numerosi articoli e libri, tra cui curatrice con A. Mapelli di “Genitori al lavoro. L’arte di integrare figli, lavoro, vita”, Guerini Next, 2016 e contributor nel volume “La Cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione” di Bombelli M.C., Serrelli E., GueriniNext 2021.

1 Commento

  • Molto bello il tema dell’idealizzazione dell’altro e il tema degli stereotipi positivi.
    Su questo punto mi permetto di segnalare anche un bel libro di Fabio Pipinato “Cooperazione: micro suggerimenti per essere / saper essere / saper fare Solidarietà Internazionale” in cui racconta la sua esperienza sulla cooperazione internazionale, aiutandoci a riflettere sui conflitti che un cooperante si trova a gestire nella sua relazione con l’Altro.
    In primo luogo i conflitti interni: il cooperante infatti deve “rendersi inutile”, deve vincere la “tentazione del fare” e deve affrontare il tema del distacco che spesso è lacerante; inoltre deve affrontare con i conflitti con la propria identità e Pipinato ci mostra molto bene i limiti sia di una identità forte che di una identità debole. Ci sono poi i conflitti con la controparte che una mitologia eccessivamente buonista della cooperazione tende a negare: a questo proposito Pipinato ci spiega in che senso la cooperazione deve essere “impura”, “egoista”, “negante”, facendo in conti con la radicale ambiguità e conflittualità insita in ogni relazione di aiuto.
    Qui trova una mia intervista su a Pipinato in cui discutiamo di questi temi: http://www.polemos.it/doc_paper/61.html .

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