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Antropologia digitale: I social media come opportunità di apprendimento

Antropologia digitale
Il mondo digitale ha aperto nuove frontiere di comunicazione un tempo assolutamente impensabili.

Personalmente, dopo molte resistenze credo in parte dovute alla mia età, ho aderito a Facebook, ricavandone, oltre al piacere di restare connessa con moltissimi amici altrimenti perduti, anche una sintesi efficace dei modi di approcciare la realtà. Le reazioni individuali e collettive ai fatti di attualità adDigitale_why we post esempio, mi danno una percezione più precisa dei modi leggere e di rapportarsi col mondo. Insomma un universo di grande interesse, dal mio punto di vista.
Oggi un team internazionale di ricercatori ha deciso di approfondire e sistematizzare questi modi differenti di interpretare la realtà con una ricerca che ha riguardato diversi paesi. Il progetto “Why we post”, è condotto da un gruppo di antropologi guidati da Daniel Miller, dell’University College di Londra e ben presentato in questo video.

La prima idea fondamentale relativa a questa ricerca è di scoprire e diffondere il lato buono dell’universo digitale, ovvero le grandi opportunità offerte da una connessione sempre maggiore sia dal punto di vista dei rapporti sociali che dalle opportunità di apprendimento.
Il secondo scopo è stato di rilevare le modalità diverse con cui le differenti culture utilizzano i social.

Le scoperte di questo enorme lavoro, svolto sul campo per lungo tempo come richiede la tradizione degli studi antropologici, sono molte.
In primo luogo si sottolinea come non si diventa più individualisti nel frequentare l’universo digitale. Una preoccupazione questa espressa molte volte dagli educatori, che, ad esempio, in una carrozza del metro vedono tutte le persone chine sul proprio smartphone, in una posizione di isolamento. In realtà, anche prima dell’esistenza di questi strumenti, non vi era molta comunicazione in un vagone del trasporto pubblico. Mentre oggi, ciascuno di questi individui, sta costruendo o mantenendo viva una relazione con altre persone.
Ancora, in molte regioni lontane, soprattutto rurali, i social sono una fonte di apprendimento. Ad esempio l’inesauribile miniera offerta dai video di youtube su qualsiasi disciplina – anche l’antropologia digitale di cui stiamo discutendo – dà la possibilità a tutti di apprendere e approfondire svariate problematiche.

Il mondo digitale rispecchia anche i valori della collettività. Ad esempio, interpretando i mitici “selfie” che invadono l’universo digitale, è possibile rilevare interessanti sfaccettature culturali. In Italia le ragazze si fanno dozzine di foto prima di scegliere quella da postare, con un’attenzione quasi ossessiva a condividere il migliore aspetto possibile. Le modalità dello scatto variano proprio per “soddisfare” le richieste del gruppo di appartenenza. Sempre in Italia, ad esempio, le rappresentazioni di sé si modificano da prima a dopo il matrimonio, adeguandosi ai valori condivisi.
In Brasile – invece – i giovani maschi si riprendono spesso in palestra, mostrando corpi tonici e muscolosi, evidentemente il top dell’idea di bellezza maschile condivisa.

In Inghilterra prevalgono invece le foto di gruppo e, sempre dagli anglosassoni, proviene la categoria “uglies”, ovvero la raccolta degli scatti peggiori. In Cile è stata creata una categoria “footie” che riprende i propri piedi durante i momenti di relax.

Questa carrellata di approcci alle immagini di sé, evidentemente, affonda le proprie radici in modalità di autovalutazione differenti, che sono un’interessante schema di riflessione nei tentativi di comunicare tra culture e nelle modalità di convivenza.

Se dalle immagini passiamo ai contenuti dei post in India sono spesso focalizzati su argomenti seri, che coinvolgono la religione, a Trinidad sono invece diretti ai politici con l’obiettivo di porre ad essi l’attenzione su questioni ritenute rilevanti. In Italia, come può notare chi si muove sui social, prevale soprattutto l’indignazione verso quello che non funziona e ciò ha radici ideologiche, di auto-riconoscimento di differenti gruppi sociali e politici.

Questa estrema possibilità di connessione fa cadere le barriere di censo, di istruzione, di appartenenze sociale, ingannando in realtà sull’uguaglianza possibile. Se on line, quindi, ci si sente uguali, off-line le differenze rimangono e sono anch’esse tanto più profonde quanto le radici culturali dei singoli paesi lo consentono. In questo, affermano i ricercatori, i social media sono “conservatori”, ovvero tendono a rispecchiare profondamente lo status quo culturale, invece da agire da agenti di innovazione.

In alcuni paesi, come ad esempio la Turchia, in cui l’universo maschile e femminile sono ancora moltoAntropologia digitale separato nelle attività quotidiane, i collegamenti digitali stanno creando un’interazione più frequente tra i due generi, consentendo una conoscenza reciproca molto diversa dalle epoche pre-digitali. Un effetto positivo, in termini di contaminazione e convivenza, che supporta le persone nella gestione della prima e più diffusa diversità, quella di genere, allenando nel contempo alla capacità di riferirsi ad un universo differente. Una capacità sostanziale nel mondo attuale e futuro che le linee di demarcazione, spesso tracciate in modo artificioso, impediscono di costruire.

Anche l’approccio agli strumenti è differente. Se nella Cina rurale e in Turchia l’universo digitale viene visto come una distrazione dai percorsi tradizionali di apprendimento, nella stessa Cina industriale e in Brasile essi sono approcciati come una risorsa. La stessa linea di demarcazione è rilevabile in India, dove le classi elevate tendono a dissuadere i propri figli dall’utilizzo dei social, mentre nelle realtà più povere essi vengono utilizzati a supporto dei processi di apprendimento.

Trasversale alle culture vi è una trasformazione nell’utilizzo dei media di comunicazione a favore dell’universo visivo. Un’immagine infatti comunica più di molte parole e i social si sono impossessati di questa modalità, facendola diventare un elemento centrale della propria cifra stilistica. Un cambiamento che impatta in modo significativo, ad esempio, sulle modalità di apprendimento.

Personalmente, proprio indagando in rete per costruire questo post, mi sono imbattuta in una conferenza a prima vista interessante ma che, non essendo sostenuta da alcuna immagine, ho abbandonato dopo pochi minuti. Il relatore mi è apparso “vecchio”, senza quella capacità di arricchire l’universo comunicativo a cui la rete ci ha abituato. Pensiamo all’impatto che questo può avere sulla scuola tradizionale, soprattutto italiana, in cui molti docenti non hanno ancora scoperto le enormi possibilità di riassunto delle slide; consideriamo la noia mortale che i nostri ragazzi possono provare di fronte a docenti che non si confrontano con le proposte e la velocità di cambiamento del mondo digitale.

Un ultimo accenno ai risultati, peraltro rintracciabili compiutamente nel sito indicato, riguarda la condivisione e la diffusione di una concezione morale. La sanzione pubblica, la sottolineatura degli errori porta a una maggiore possibilità di esprimere il proprio pensiero, ma anche di ricevere/accettare opinioni altrui. Il versante oscuro, ovviamente, è invece il pericolo dell’in-group, ovvero della ricerca della conferma delle proprie idee. Ma la dimensione pubblica dei social può arginare questo fenomeno, costringendo – in diversi modi – al confronto.

Ovviamente molto si potrà ancora scoprire da questo insieme di nuove di relazioni, tuttora in profonda evoluzione. Un materiale di grande interesse, ma anche una sfida – visti i risultati – ad indirizzarne l’utilizzo verso le dimensioni positive, di apprendimento individuale e collettivo alla gestione della diversità.

Autore

Cristina Bombelli

Fondatrice di Wise Growth, si è occupata di Diversity & Inclusion dagli anni ‘80.

È stata professoressa presso l’Università di Milano-Bicocca e per anni docente della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi dove ha fondato il primo centro studi di ricerca sul tema. È stata visiting scholar presso l’Università di La Verne in California.
È pubblicista e autrice di numerosi articoli sui temi del comportamento organizzativo e della gestione delle diversità. È stata presidente della fondazione “La Pelucca” onlus, dedicata ad anziani e disabili. È certificata IAP di THT (Trompenaars Hampden – Turner) per la consapevolezza interculturale, executive coach con Newfield e assessor con Hogan.

Ha pubblicato numerosi libri tra i quali i più recenti: Alice in business land. Diventare leader rimanendo donne, 2009; Management plurale. Diversità individuali e strategie organizzative, 2010; Un manager nell’impero di mezzo, 2013; Generazioni in azienda, 2013; Amministrare con sapienza, la regola di San Benedetto e il management, 2017; La cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione, 2021.

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