Diversity Lavoro e Management

Felicità in azienda e dialogo tra generazioni

Scritto da Anna Zattoni
L’erosione del welfare pubblico da un lato e l’allungamento della vita professionale dall’altro hanno contribuito a rendere l’azienda non solo – e non più – “un posto di lavoro”, ma un vero e proprio eco-sistema.

Dove il confine tra vita lavorativa e privata è sempre più labile, e dove i servizi offerti contano tanto quanto, se non di più, dello stipendio. Come succede spesso, la normativa intercetta e codifica cambiamenti già in atto e anche in questo caso la Legge di Stabilità 2016 ha ampliato la gamma di servizi di welfare aziendale defiscalizzabili, legandoli peraltro ad un miglioramento della qualità e della produttività del lavoro.

Questi cambiamenti hanno aperto una nuova fase del confronto tra le 155 aziende associate Valore D  che promuovono la diversità, il talento e la leadership femminile per la crescita delle aziende e del Paese. Dopo aver mappato le misure adottate internamente, dopo aver misurato i potenziali benefici e identificato i fattori di successo di un piano di welfare aziendale, Valore D oggi è chiamata a trovare nuovi strumenti per far fronte a questi nuovi scenari. E per farlo, è necessario pensare al welfare non solo e non più come uno strumento di ottimizzazione fiscale, ma piuttosto come una leva per la valorizzazione dei talenti individuali.

I nuovi trend demografici indicano infatti che da un lato già oggi circa un lavoratore su tre ha più di 50 anni, e resterà in azienda per un periodo di tempo significativo, almeno fino ai 67 anni. Dall’altro i giovani che entrano in azienda hanno valori e priorità molto diversi e nell’insieme la gran parte dei collaboratori (85,9%) dichiara di sentirsi schiacciato dalle generazioni precedenti.

Queste sono quindi le nuove sfide che le aziende si trovano fin da ora ad affrontare: come attrarre e soprattutto saper ingaggiare i così detti millennials? Come affrontare il tema dell’ageing, ovvero dell’invecchiamento della popolazione aziendale? E come rendere più felice e produttiva la loro permanenza nel mercato del lavoro, considerando questi cambiamenti ed i potenziali conflitti che ne derivano?

Un’analisi interna all’associazione – che ha coinvolto 82 aziende – ha evidenziato come la felicità, intesa nel senso di benessere organizzativo, sia una priorità tutt’altro che astratta per un’impresa su due (55,8%). E se i millennials sono per la maggior parte dei casi ancora pochi (meno del 30% della popolazione aziendale), un’azienda su due si sta già muovendo per intercettare tutte le loro potenzialità. Un compito non facile, visto che si definiscono loro stessi informali, “leali ma non fedeli” all’azienda, che “si annoiano in fretta” e che “vogliono divertirsi”. Questi giovani non vivono più alcuna separazione tra vita professionale e vita privata, sono sempre connessi e chiedono ambienti di lavoro multiuso e coinvolgenti. La loro idea di lavoro è molto flessibile, vogliono essere misurati per i risultati raggiunti, desiderano investire il tempo per acquisire nuove competenze e conoscenze.
E non percepiscono più – o ancora? –  la questione di genere come rilevante: un giovane su due tra i neo-assunti infatti è una donna, e sia la disparità salariale che di carriera all’inizio del percorso professionale non esistono. Tutto risolto quindi? Non proprio. Già oggi la presenza di professioniste donne in azienda si concentra attorno a due poli: da un lato le molte donne giovani con posizioni junior, dall’altro le manager senior che hanno beneficiato delle nuove norme sulla presenza femminile nei CdA e che sono ormai il 27,6% dei consiglieri. Nel mezzo del cammino, usando una metafora, questi divari persistono e necessitano di nuovi strumenti per essere affrontati al meglio.

Nuovi strumenti – come la formazione sui pregiudizi inconsapevoli (o unconscious biases) o sugli stili di leadership di genere o ancora la mentorship – per consolidare la collaborazione intergenerazionale sono quindi sempre più richiesti.

Una seconda sfida per le politiche di welfare sussidiario sarà quella di saper rispondere ai bisogni delle persone con più di 50 anni d’età, che hanno davanti a loro almeno altri 15 anni in azienda. Dalla ricerca di Valore D emerge che – nonostante gli over 50 siano una parte sempre più rilevante della forza lavoro – solo il 15,4% delle organizzazioni (meno di un’azienda su sei) ha già in atto dei percorsi dedicati a loro. Dalla ricerca è emerso però che molte altre aziende stanno iniziando a lavorare in questo senso, percependo il tema come una vera e propria questione di organizzazione aziendale, tanto da immaginare misure personalizzate: dal reverse mentoring ai patti intergenerazionali, da nuovi modelli di valutazione più inclusivi alla nuova figura professionale del Senior Talent Manager.

Misure per valorizzare esperienze e professionalità diverse in un contesto aziendale sempre più dinamico ed sfidante.

Si osserva che i millennials sono orientati all’innovazione (53,9%), al lavoro per obiettivi (40,1%), sono collaborativi ed inclusivi (36,5%); gli over 50 invece sono maggiormente avversi al rischio (38,5%), spesso autoritari (34,6%) e individualisti (32,7%). Stili molto diversi e potenzialmente conflittuali. Eppure nella stragrande maggioranza delle aziende non ci sono percorsi per accompagnare il passaggio generazionale.

Ed è proprio questa la terza sfida da affrontare, forse la più complessa e cruciale: come raggiungere la felicità in azienda? Come realizzare un benessere organizzativo di cui sia l’azienda che i collaboratori possano beneficiare? Valore D, grazie al confronto con i propri associati e a un partner come Aggiornamenti Sociali, ha coniato un nuovo termine che è la human cooperation. Ovvero una nuova cultura aziendale, attenta ai bisogni e alla valorizzazione del talento di ognuno, in cui il dialogo tra generi e generazioni crea una maggiore consapevolezza della professionalità propria e altrui, producendo una naturale apertura verso la collaborazione e un clima di ben-essere nel vero senso della parola. Il termine coniato può sembrare astratto, ma in molte aziende è già una realtà in piena sperimentazione: dal Chief Happiness Officer al reverse mentoring, da spazi ibridi in ufficio a nuovi stili di leadership inclusivi e celebrativi. La human cooperation non si limita all’ambito aziendale, ma mutua le esperienze del terzo settore per una efficace condivisione di saperi e conoscenze, ma anche di beni e servizi di welfare a livello interaziendale.

In questo senso la start up Jointly – nata dal percorso di ascolto di 20 aziende che volevano condividere le loro esperienze per innovare i servizi di welfare – rappresenta un’esperienza unica nel suo genere in Italia.

Insomma la felicità è diventata ormai la nuova frontiera del welfare, e per molte aziende è direttamente legata al marketing e al business. Se l’azienda è in grado di rendere felici i collaboratori, loro potranno rendere felici a loro volta i clienti.

Sempre più spesso infatti le aziende hanno innescato un meccanismo virtuoso – che sfruttano anche a livello comunicativo – tra l’orgoglio e la soddisfazione sul posto di lavoro e il buon prodotto o servizio che si è così in grado di poter offrire.

Ma attenzione: l’introduzione di misure di welfare, anche se innovative e “alla moda” come questa, non sono di per sé condizione sufficienti per la creazione di valore. Perché se pensate come mero vantaggio fiscale o costruite e governate male rischia di tradursi in uno sforzo economico inutile, sia per l’azienda e che per il dipendente. Basti pensare che ancora oggi molte delle aziende che offrono welfare spendono il 70% del budget su voci a cui i dipendenti – se potessero scegliere – allocherebbero solo il 20% delle risorse. E’ quindi fondamentale capire chi sono i propri collaboratori e quali sono le loro esigenze specifiche, monitorando regolarmente l’evoluzione della propria popolazione aziendale.

Il welfare, inteso nella sua più amplia accezione, non ha quindi alcuna valenza in sé, se non è il frutto di un percorso che coinvolga davvero generi e generazioni diverse all’interno di un luogo di lavoro. Un percorso certamente più complesso che introdurre una figura simile nell’organigramma, ma che può rendere la felicità più sostenibile nel medio e nel lungo termine.

Autore

Anna Zattoni

Dal 2012 è Direttore Generale di Valore D, la prima associazione di grandi imprese creata in Italia per sostenere la leadership femminile in azienda, dove in precedenza ha ricoperto il ruolo di Consigliere per Vodafone Italia. È consigliere di amministrazione non esecutivo di Be SpA e di Ebooks&Kids Srl e inoltre advisor di V-Nova Ltd. In passato ha lavorato in Vodafone Italia come HR Manager delle Direzioni Tecnologie e Commerciali, in Pfizer Italia come Direttore Organizzazione e in The Boston Consulting Group. Ha conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica presso l’Università di Bologna e il Master in Business Administration presso la SDA Bocconi.

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