Cross culture Diversity

Più uguali che diversi

I “falsi amici” dell’interculturalità

Il merito del diversity management è certamente quello di avere introdotto nei contesti lavorativi una riflessione sui meccanismi, spesso fisiologici ed inconsci, di esclusione di alcune tipologie di persone e, di converso, su come fare per costruire un ambiente inclusivo.

Purtroppo la sottolineatura delle differenze e, soprattutto, le classificazioni che si devono utilizzare in questo processo – uomini/donne, generazioni, culture di appartenenza e così via – possono ottenere l’effetto opposto, ovvero quello di costruire più sofisticati stereotipi.

Per questo è importante comprendere come non esista qualcuno di diverso dagli altri, cosa che la terminologia stessa del “diversity management” fa intuire, ma che tutti sono diversi dagli altri.

La convinzione profonda della diversità individuale e la conoscenza dei meccanismi psicologici diPiù uguali che diversi avvicinamento e allontanamento delle persone, fa capire però quanto siamo simili, quanto le dinamiche individuali siano profondamente replicabili, perché ciascuno è alla ricerca di qualcosa che, in realtà, è elemento comune.

Affrontare ciò che accomuna, quindi, e non solo ciò che divide, aiuta a mettere a fuoco meglio la “fatica” quotidiana dell’inclusione, sia personale – ovvero quanto voglio essere riconosciuto dagli altri – che collettiva, ovvero quali sono le “linee di faglia” di inclusione ed esclusione che ogni gruppo mette in atto. La consapevolezza, come sempre, di queste dinamiche ci aiuta a migliorare sia soggettivamente che collettivamente.

Una prima riflessione su ciò che ci accomuna deriva dalla storia lontana. Pare che il nucleo fondante di quei progenitori che hanno dato origine all’umanità sia partito dal territorio africano e sia poi migrato in progressione nelle diverse parti del mondo. Le tecniche di lettura del DNA oggi facilmente accessibili, consentono di capire che le parentele sono molto più frequenti di quanto non si pensi anche tra persone apparentemente molto distanti, sia per razza (se si può ancora parlare di razza), che per geografia, come dimostra questo interessante e coinvolgente filmato.

Questioni lontane certo, che possono costituire una base di riflessione, ma non rispondono ad una lettura attualizzata, che può essere invece condotta riflettendo su ciò che accumuna tutte le persone, senza distinzione.

Il primo bisogno è quello del rispetto della propria integrità psico-fisica, che ciascuno dovrebbe avere garantito in quanto essere umano. Un tema che ci potrebbe portare lontano se affrontato in termini storici, in quei luoghi e in quei momenti dove scientemente si è prodotta una rottura del rispetto, ledendo la dignità delle persone, per scopi di diversa natura. La storia sembra lontana, ma una scorsa ai giornali e alla cronaca ci fanno capire quanto questo elemento fondante sia ancora da acquisire in molte parti del globo e in molti contesti organizzativi.
Diversi_BorgnaPrendendo spunto da Borgna, La dignità ferita, si può anche riflettere su una strategia dell’accoglienza che salvaguardi sé e, contemporaneamente, accolga l’altro. “La gentilezza come forma di vita” che egli propone, soprattutto nei contesti di cura della fragilità psichica, può essere una risposta, apparentemente antica, ma che ripropone un modo di essere che faccia tesoro di un ascolto interessato prima che attento.

Tutti desiderano quindi un proprio posto nel “cerchio della vita” in cui avere la possibilità di esprimersi, di avere delle relazioni, di trovare una modalità di sostentamento e, ultimo ma non meno importante, di realizzare il proprio potenziale.

Questa elencazione di bisogni individuali richiama la famosa piramide di Maslow, certamente superata dal punto di vista accademico, ma che nel senso comune continua a esplicitare un percorso che ciascuno fa, dalla ricerca di elementi di base per sopravvivere, fino alla possibilità di esplorare sé stesso per trovare una leva di azione che sia fortemente congegnale alla propria individualità.

In questa logica di fondo si inseriscono i comportamenti organizzativi quotidiani, fortemente segnati nello svolgimento, dal tentativo di ciascuno di difendere il proprio territorio e le proprie opinioni, valorizzandole in senso positivo. Il non ascolto dell’altro viene giustificato, a volte con veemenza, perché l’altro “sbaglia”. Interessante da questo punto di vista riflettere sulla comunicazione pubblica e quella televisiva che, tornando alle parole di Borgna, propongono la maleducazione come forma di vita.
Con orgoglio alcuni opinion leader hanno “sdoganato” l’insulto pubblico, la non correttezza politica come cifra stilistica di una persona intelligente e fuori dal coro, la metafora denigratoria, l’urlo e lo strepito.
Fatti di costume, si potrebbe pensare.
In realtà, senza voler fare l’elogio del conformismo, si possono dire cose dirompenti, che sovvertono lo status quo, senza necessariamente mancare di rispetto al proprio interlocutore. La dinamica però deve prevedere la possibilità di avere torto, di non essere nell’universo delle granitiche certezze, di mettersi in discussione.

Ecco perché il correlato del non rispetto solitamente è l’insicurezza. Ovvero la non disponibilità ad accogliere un altro punto di vista, tacciandolo di errore ancora prima di averlo pienamente ascoltato.

E’ a partire da queste riflessioni che si comprende come il management plurale vada in profondità nella vita delle persone e delle organizzazioni, proponendo un percorso di maturità individuale e sociale. Un percorso di rispetto anche di sé, che passa appunto dalla consapevolezza dei propri limiti e delle proprie reazioni emotive, che devono essere accettate, per proseguire in una strada di cambiamento.
Consapevolezza quindi, poi accettazione.
Da qui si può partire per riportare il rispetto dentro la nostra vita, accogliendo non in modo acritico e totale, ma con intelligenza e capacità di distinguere.

In fondo l’uomo non scopre quasi più nulla: da secoli filosofi, scienziati, psicologi, si sono posti il problema della convivenza, cercando soluzioni che siano a supporto dei singoli, ma con un orientamento al benessere collettivo. Eppure ogni generazione sembra dimenticarsi sia delle catastrofi che delle esperienze positive.

Da questo punto di vista studiare, ricordare, conoscere, approfondire, sono passaggi utili per costruire quella saggezza che consente di incontrare l’altro, riconoscendone le esigenze comuni, senza perdere la propria individualità.

Autore

Cristina Bombelli

Fondatrice di Wise Growth, si è occupata di Diversity & Inclusion dagli anni ‘80.

È stata professoressa presso l’Università di Milano-Bicocca e per anni docente della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi dove ha fondato il primo centro studi di ricerca sul tema. È stata visiting scholar presso l’Università di La Verne in California.
È pubblicista e autrice di numerosi articoli sui temi del comportamento organizzativo e della gestione delle diversità. È stata presidente della fondazione “La Pelucca” onlus, dedicata ad anziani e disabili. È certificata IAP di THT (Trompenaars Hampden – Turner) per la consapevolezza interculturale, executive coach con Newfield e assessor con Hogan.

Ha pubblicato numerosi libri tra i quali i più recenti: Alice in business land. Diventare leader rimanendo donne, 2009; Management plurale. Diversità individuali e strategie organizzative, 2010; Un manager nell’impero di mezzo, 2013; Generazioni in azienda, 2013; Amministrare con sapienza, la regola di San Benedetto e il management, 2017; La cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione, 2021.

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