Diversity Donne

La parità di genere nell’università italiana

Scritto da Ilaria Li Vigni

I dati della componente femminile nel mondo universitario fanno riflettere sia dal punto di vista numerico sia da quello del ruolo della donna in un settore di vitale importanza per formazione, cultura e ricerca.

I numeri parlano chiaro, sono donne il 58% dei laureati, il 52% dei dottori di ricerca, il 48% dei ricercatori, il 37% dei professori associati, il 22% degli ordinari: una parabola discendente davvero significativa da leggere in comparazione anche con altri numeri.

Le ragazze che si iscrivono all’università sono quasi sette su dieci (poco più della metà dei diplomati) e la percentuale di lauree, rispetto alle iscrizioni all’università, è 22% per le donne e 15% per gli uomini. Appare evidente, quindi, che vi è un blocco davvero significativo, per le donne, a raggiungere i gradini più alti della carriera universitaria.
Al 31 dicembre 2016, tra i professori ordinari, massimo livello di carriera, le donne rappresentano soltanto il 22% del totale.

Sembra, quindi, che in Italia le donne non riescano ad andare oltre un certo livello di carriera accademica.

Le cose vanno leggermente meglio se si passa al gradino successivo, quello dei professori associati. Qui, la presenza femminile arriva a conquistare più poltrone, ma, in ogni caso, sempre poche, una su tre, rappresentando il 37% del totale.

Scendendo nella gerarchia accademica, passando ai ricercatori, la parità di genere è un obiettivo raggiungibile con 48 donne e 52 uomini. Nell’ultimo decennio, tra i ricercatori di ruolo, le donne hanno conquistato quasi otto punti di rappresentanza. In quasi ogni facoltà (fenomeno davvero trasversale), molte ricercatrici hanno oltre cinquant’anni e ricoprono l’incarico da diversi anni, senza possibilità di avanzamento di carriera, pur essendo responsabili di docenze in materie primarie e svolgendo, quindi, attività didattica e scientifica assimilabile a quella dei docenti ordinari.

Questi numeri hanno poche spiegazioni se non quella di un percorso ad ostacoli per le donne anche in ambito universitario, come, peraltro, in molti altri settori della Pubblica Amministrazione e delle aziende. All’estero, in quasi tutte le nazioni europee, la situazione va diversamente e i numeri lo dimostrano chiaramente.

Solamente in Finlandia, si è raggiunto l’equilibrio perfetto tra i generi tra i docenti universitari. In molti Paesi, tra cui Norvegia, Regno Unito, Portogallo e Svezia, la parità è a portata di mano, in quanto la presenza femminile nel corpo docente oscilla tra 44 e 45%, sia tra ordinari che associati.

In Italia, con un sistema universitario quasi impermeabile alla presenza femminile ai livelli apicali, siamo al terzultimo posto, seguiti da Svizzera e Grecia.

Le donne, considerate tutte le figure, ordinari, associati e ricercatori, rappresentano il 37% dell’intero corpo docente, percentuale decisamente scarsa per una nazione che ambisce ad un posto di rilievo in ambito europeo.

La difficoltà delle donne a raggiungere i più alti livelli di carriera non è, certo, un fenomeno circoscritto all’Italia, né tanto meno al mondo dell’accademia. Le cause, anche in questo caso, sono diverse e articolate.

 

Innanzitutto, si riscontra una tendenza all’autolimitazione, in quanto le donne si iscrivono, prevalentemente, a corsi di laurea umanistici (80%) e non a quelli scientifici (31%), specie ingegneria (21%). In tal modo, si allontanano dalle facoltà in cui maggiore è il numero dei docenti di ruolo e più intensa l’attività di ricerca.
Vi è, poi, la questione delle commissioni d’esame composte, quasi esclusivamente, da uomini. Da una recente analisi emerge che le commissioni interamente maschili tendono a scegliere candidati uomini, mentre è sufficiente la presenza di almeno una donna in commissione per colmare lo svantaggio.

In Italia le donne sono penalizzate anche nei ruoli dirigenziali degli atenei, solo 5 le rettrici su 78 nelle università italiane.

Tali dati devono anche essere letti in un’ottica di confronto con il numero, particolarmente alto, di donne tra insegnanti di scuola primaria (90%) e secondaria (60%), ribadendo che la problematica riguarda, nello specifico, il mondo universitario.

Occorre, quindi, sensibilizzare le donne a scegliere facoltà scientifiche, mettendo le proprie competenze a servizio di materie, come informatica e ingegneria applicata, che offrono grandi spazi di ricerca in futuro e maggiori possibilità di lavoro negli atenei.

In tal modo la parità di genere, ancora lontana in ambito universitario, potrà finalmente essere raggiunta, come peraltro sta accadendo da tempo in molti settori del mondo del lavoro.

Importante è che anche istituzioni e politica si adoperino perché la parità di genere diventi motore e volano del progresso sociale di un Paese moderno come il nostro.

Dati: ISTAT 2016

Autore

Ilaria Li Vigni

Avvocata penalista, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Milano e specializzata in diritto penale dell’economia, reati contro la Pubblica Amministrazione, contro la persona e la famiglia. Consigliere dell’Ordine regionale dei Giornalisti. Consulente legale Consolato USA a Milano. Si occupa di tematiche di genere nell’avvocatura, coordinando corsi di formazione in materia di diritto antidiscriminatorio e pari opportunità e leadership presso le Istituzioni Forensi e le Università. Giornalista pubblicista e autrice di saggi.

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