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Cancelliamo i programmi DEI. E poi?

Cancelliamo i programmi DEI. E poi?

Il 2025 sarà probabilmente ricordato come l’anno che ha segnato un punto di svolta nel panorama delle politiche di Diversity, Equity & Inclusion (DEI).

Quello che inizialmente era un tema marginale è diventato centrale nelle aziende, soprattutto negli ultimi quattro anni, anche a partire dall’ascesa del movimento Black Lives Matter.

Oggi, però, assistiamo a un’inversione di tendenza: molti programmi sono stati ridimensionati e, in alcuni casi, interi dipartimenti dedicati si sono visti costretti a chiudere i battenti.

L’effetto boomerang del DEI-washing

Cosa ha portato a questa crisi in tempi tutto sommato brevi? La risposta, come spesso accade, non è univoca e può essere ricondotta a fattori diversi. I recenti sviluppi nella politica statunitense hanno sicuramente dato un’accelerata a questo processo. Tuttavia, i segnali di un cambio di direzione erano già visibili da qualche tempo. Basti pensare a casi come quello di Hollywood o della Harley Davidson.

La situazione in Italia appare diversa, sia per un tema normativo sia perché le derive e le strumentalizzazioni non sono così accentuate come in USA.

Questi esempi, così come molti altri, evidenziano che alcuni programmi riuniti sotto il “cappello DEI” (o DE&I o D&I) siano stati concepiti più per seguire il trend del momento che per incidere in modo duraturo e autentico sulla cultura organizzativa. A conferma di ciò, molti di questi progetti sono stati interrotti con la stessa rapidità e facilità con cui erano stati avviati.

Le ricerche affermano che alla base del fallimento di molte iniziative in ambito DEI c’è la mancanza di una strategia sistemica, di obiettivi chiari e di azioni dall’impatto concreto.

Il punto è che il washing e le policy di facciata, alla lunga, danneggiano la causa più ampia e spiegano, almeno parzialmente, l’ondata anti-woke. Senza una visione strategica e un piano sostenibile, il rischio è che tutto si riduca a un entusiasmo passeggero fondato su nuove esclusioni, incapace di generare un cambiamento reale. Anzi, queste pratiche finiscono per rafforzare le resistenze e alimentare le divisioni, contribuendo, in parte, alla situazione attuale.

Cosa significa “smantellare” la DEI?

La domanda che sorge spontanea è: ma cosa significa esattamente, per un’azienda, rinunciare ai programmi DEI? Cosa comporta nella vita quotidiana delle persone al lavoro? Significa ritornare alla “spontanea” esclusione delle donne dalle posizioni di vertice? Significa tollerare battute sessiste o omofobe? Perché purtroppo non basta ignorare questi temi per far sì che essi cessino di esistere. L’esclusione è un fatto, così come le dinamiche di in-group/out-group e gli stereotipi, e ignorarli non servirà a farli scomparire. Se non si lavora intenzionalmente sulle “linee di faglia” che sempre emergono nelle organizzazioni, si finirà per escludere in modo involontario.

Occorre superare una contrapposizione ormai strumentale e concentrarsi su quanto di positivo è stato realizzato nel tempo in termini di ascolto, comprensione e azioni concrete. L’obiettivo è quello di mettere al centro le persone e creare contesti lavorativi equi e armonici, in cui chiunque possa crescere sia a livello personale che professionale.

Non si tratta solo di un tema etico e valoriale, ma anche di competitività aziendale. Le persone, infatti, scelgono di restare dove stanno bene, dove possono esprimere appieno il loro talento e il loro potenziale. Dagli ambienti tossici e poco valorizzanti, prima o poi, si fugge.

La questione della meritocrazia e delle “discriminazioni al contrario”

Cancelliamo i programmi DEI. E poi?

Coloro che, più o meno recentemente, hanno mostrato scetticismo nei confronti dei programmi DEI, hanno spesso fatto appello al tema della meritocrazia. L’ipotesi per cui un approccio plurale e aperto alla diversità finisca per non premiare il merito è, però, abbondantemente infondata e si intreccia con l’esistenza degli unconscious bias e con le dinamiche di privilegio.

Di fatto, lo stesso concetto di merito, che ha la pretesa di fondarsi su dati oggettivi, presenta diversi livelli di complessità. Una dimostrazione classica è quella delle blind auditions introdotte nelle orchestre e studiate dall’economista Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia. La scarsa presenza di musiciste donne era dovuta a una minore bravura? Così si pensava, fino a quando l’introduzione delle “audizioni cieche” ha svelato la forza dei pregiudizi inconsci. Facendo suonare le musiciste e i musicisti dietro un paravento, chi giudicava ha iniziato a valutare esclusivamente la qualità dell’esecuzione, senza che genere, etnia o aspetto fisico influenzassero le decisioni. Il risultato? Un aumento significativo delle donne nelle orchestre, a dimostrazione dell’impatto positivo di processi di selezione più equi ed oggettivi.

Il fatto che per anni l’accesso a posizioni apicali e allo stesso mondo organizzativo sia stato consentito quasi esclusivamente agli uomini, ad esempio, ha dato luogo a un inevitabile imprinting alle aziende.  Quello che può apparire come “lo status quo”, è lecito pensare che sia uno dei risultati di una cultura ancora oggi permeata di bias, stereotipi e pregiudizi nei confronti di altre categorie a lungo marginalizzate.

In sostanza, il merito rischia di tradursi in una nozione complessa e stratificata, che non presenta elementi sufficienti per svalutare le iniziative DEI, che si prefiggono un accesso e una partecipazione più equi al mondo del lavoro. Occorre andare oltre una visione semplicistica per riconoscere e accettare l’esistenza di categorie che per una serie di fattori (storici, sociali e culturali) ha beneficiato e beneficiano tutt’ora di una serie di vantaggi e di altre che, per gli stessi motivi, sono rimaste e rischiano di rimanere escluse dalla cultura organizzativa. L’obiettivo di una simile precisazione non è mettere in dubbio il concetto stesso di meritocrazia, sicuramente fondamentale e necessario. Si tratta piuttosto di non ignorare il peso delle disuguaglianze sistemiche che questo criterio porta con sé.

Perché il mondo del lavoro non può – ancora – rinunciare alle quote di genere

Un tema ulteriormente complesso sono le quote di genere: un impianto spesso criticato perché ritenuto inefficace e una minaccia al principio del merito. Pur senza mancare di zone d’ombra e criticità, le quote di genere possono rivelarsi uno strumento prezioso, e al momento necessario, nella strada verso l’equity. Le aziende che le adottano, inoltre, ottengono migliori prestazioni di mercato, attraggono più investimenti e beneficiano dell’apporto strategico delle donne nei CdA.

Negli ultimi 15 anni, la presenza femminile nei CdA delle aziende quotate è triplicata, ma il tasso di occupazione femminile in Italia resta fermo al 52,5%, ben al di sotto della media europea. Inoltre, la produttività del Paese ristagna, segno che il talento femminile resta sottoutilizzato.

Le quote di genere sono uno strumento, e come tale andrebbero utilizzate: con consapevolezza e lucidità, non come una soluzione miracolosa. Purtroppo, però, sono ancora oggi necessarie. Ridurre il dibattito a una questione di “merito” rischia di ignorare le disuguaglianze strutturali che continuano a penalizzare le donne, come il part-time involontario di molte madri, la carenza di servizi per l’infanzia o la distribuzione sbilanciata del lavoro di cura.

Affrontare queste criticità non è solo una questione di equity, ma un’opportunità di crescita per l’intero sistema economico e sociale. Solo dopo che ci sarà stato un reale cambiamento culturale potremo, finalmente e auspicabilmente, rinunciare alle quote. Non a caso, la certificazione della parità di genere (UNI PdR 125:2022) include diversi indici quantitativi (proporzione di donne nella popolazione, quote di donne in posizioni manageriali o con deleghe di spesa, nonché naturalmente l’equità salariale) tra gli indicatori da monitorare e migliorare costantemente nel tempo.

Quindi, che fare?

Cancelliamo i programmi DEI. E poi?

Come Wise Growth abbiamo cominciato a occuparci di consulenza e formazione alle aziende nel 2008, in un contesto e in un periodo in cui in cui parlare di pluralità, inclusione e rispetto non era scontato né tantomeno semplice. L’intuizione della nostra fondatrice Maria Cristina Bombelli risiede nel nome stesso della società e ne racchiude i suoi tratti distintivi. Crescere in modo saggio (Wise Growth) significa ascoltare e valorizzare l’unicità di persone e organizzazioni perché evolvano nel pieno del loro potenziale. Significa sviluppare progetti orientati al cambiamento della cultura organizzativa, fondati sulla ricerca e l’aggiornamento costanti e costruiti per essere duraturi e sostenibili nel tempo. Ogni progetto, anche piccolo, si deve ancorare a una visione, altrimenti diventa sterile e, soprattutto, alimenta conflitti e polarizzazioni.

Lo stesso concetto di sostenibilità, spesso abusato, trova la sua valenza più profonda nelle persone, il vero cuore delle organizzazioni. Parlare di sostenibilità umana infatti significa promuovere concretamente il benessere e la consapevolezza del valore degli individui. Agire all’interno di queste coordinate significa intervenire su più livelli della cultura organizzativa, attraverso un approccio a 360° che combina l’impatto sul business a quello sociale.

Questa sinergia è alla base del successo e dell’efficacia dei percorsi che realizziamo nelle aziende e promuove una crescita davvero saggia di persone e organizzazioni.

Il futuro delle politiche DEI tra nuove sfide e rinnovate opportunità

Se quanto è accaduto e sta accadendo negli Stati Uniti avrà un seguito anche in Italia, non è facile dirlo. Quel che è certo è che il nostro Paese presenta caratteristiche culturali e normative diverse e, in materia di DEI, le politiche sono generalmente meno strutturate e dunque anche meno facili da (de)limitare. Va poi detto che la regolamentazione europea e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU sono ulteriori elementi a tutela dell’equità.

In conclusione, se c’è una lezione che si può apprendere da questi avvenimenti è che il tempo di iniziative meramente di facciata su questi temi è ufficialmente giunto. E forse è un bene. Occorre che tutte le realtà che, a vario titolo, hanno un ruolo in questo ambito introducano una riflessione concreta sulle proprie motivazioni e i propri obiettivi.

È ciò che abbiamo deciso di fare noi di Wise Growth che da sempre cerchiamo di mantenere una posizione saggia e quindi consapevole nel panorama – divenuto via via più vasto – della Diversity, Equity & Inclusion. Non abbiamo mai seguito le mode, ma abbiamo sempre messo nei nostri progetti impegno, passione e competenza.  I tanti traguardi raggiunti nel corso degli anni, oltre a rassicurarci, ci danno nuova energia per affrontare le sfide che ci attendono. Oggi più che mai, crediamo nella direzione che abbiamo intrapreso ormai 17 anni fa. Una strada che continueremo a percorrere con ancora più coraggio e determinazione.

Riferimenti

Autore

Redazione Diversity-Management.it

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