Qualche giorno fa John Mc Enroe, rilasciando un’intervista all’emittente NPR per la promozione del suo nuovo libro But Seriously, ha affermato che la più medagliata tennista di tutti i tempi – Serena Williams – “sarebbe solo al 700° posto delle classifiche se disputasse tornei maschili”. La replica non si è fatta attendere e la tennista, ora momentaneamente ferma in attesa del suo primo figlio, ha chiesto al collega rispetto e ha brillantemente bypassato la questione affermando “di non avere tempo per questo genere di cose avendo di meglio di cui occuparsi”.
Il camaleontico tennista americano, famoso tanto per il suo gioco quanto per il suo personaggio, ha sempre affascinato schiere di seguaci. Dispiace quindi assistere all’ennesima boutade del grande ex giocatore, che forse una volta di più non ha saputo resistere al silenzio.
Uomini e donne, come tutti sappiamo, sono biologicamente e fisicamente diversi. Se non in alcuni rari sport in cui la componente fisica non è quasi presente, è del tutto inutile e di alcun significato metterli a confronto su questo piano.
L’affermazione di Mc Enroe, di cui è difficile comprendere lo scopo e la motivazione (se non quello di fare da cassa di risonanza all’uscita del libro) ha come risultato quello di alimentare – in questo sport e non solo – l’eterna “battaglia dei sessi” e di tentare di ridimensionare l’incredibile carriera sportiva della tennista statunitense.
Serena Williams, soprannominata The Queen, è considerata la più grande giocatrice di tutti i tempi. 23 titoli del Grande Slam, terza nella classifica all-time di settimane passate da n. 1 del mondo, al primo posto per diverse settimane consecutive da migliore in graduatoria, con il suo monte premi in denaro (per un totale di 80 milioni di dollari) è la tennista ad aver guadagnato di più nella storia di questo sport.
Serena Williams ha inoltre un altro grosso merito. Oltre all’indiscusso talento tennistico, l’atleta incarna un importante role model per molte ragazze. Il suo fisico statuario, che a fatica si incasella nei canoni estetici odierni, viene mostrato con fierezza pur essendo qualcosa di out of the box da ciò che i media veicolano quotidianamente come bellezza femminile. Un messaggio di accettazione e fiducia in se stesse, importante per molte giovani donne.
Non è la prima volta che il mondo del tennis viene infiammato da polemiche di questo tipo. La “battaglia dei sessi” in questo sport esiste da molto tempo e torna alla ribalta con regolarità. Agli Australian Open del 1998, proprio una giovane Serena Williams giocò un match contro il tedesco Karsten Braasch (203 nella classifica mondiale) perdendolo per 6-1. La prima partita che vide sfidarsi un uomo e una donna fu quella tra Bobby Riggs e Margaret Court nel 1973 (6-2 6-1). Margaret perse, ma sempre nello stesso anno Bobby venne poi battuto da Billie Jean King (6-4 6-3 6-3). La più famosa rimane però probabilmente quella tra Jimmy Connors e Martina Navratilova nel 1992, vinta dal tennista americano (7-5 6-2).
Il tennis viene spesso portato come esempio positivo di equal pay nello sport. Ma la realtà non è così rosea come la si vuole rappresentare.
Anche questa disciplina infatti non è risparmiata dal gender pay gap, nemmeno ai livelli più alti.
Nei 4 tornei del Grande Slam donne e uomini sono pagati in maniera egualitaria. Il primo ad introdurre la regola è stato l’US Open nel 1973, l’ultimo il torneo di Wimbledon nel 2007. Questa grossa conquista cela però il fatto che negli altri tornei minori il gender pay gap esiste eccome e che alla fine dei conti le tenniste donne guadagnano 80 centesimi contro il dollaro dei colleghi maschi.
Nel 2015 ad esempio, ad una delle più importanti competizioni degli Stati Uniti, la Western & Southern Open di Mason, in Ohio, Roger Federer ha ricevuto 731mila dollari per aver difeso il suo titolo. Per la stessa impresa, a Serena Williams ne sono spettàti “solo” 495mila.
La questione non è nuova. Proprio in questi giorni, gli organizzatori del torneo di Wimbledon sono stati accusati di sessismo. Dall’inizio del torneo infatti, i campi più importanti sono stati principalmente riservati agli atleti di sesso maschile. Il rapporto, fino ad ora, è stato di 14 a 8 nella prima settimana e nessuna testa di serie del tabellone maschile ha mai giocato dal campo numero 2 in giù. La giustificazione – come per il pay gap – è sempre la stessa: il pubblico e le televisioni vogliono sui campi principali i giocatori di punta, quelli che attirano più spettatori e quindi più introiti e che, guarda caso, sono tutti uomini.
Oltre a quella economica si aggiunge un’ulteriore discriminazione per le atlete: le donne spesso non sono considerate delle professioniste. E non è solamente un problema del nostro Paese. Le atlete italiane, che fanno dello sport il loro lavoro, sono costrette a gareggiare da dilettanti perché nessuna Federazione permette loro di accedere all’attività professionistica. In Italia le sportive guadagnano in media il 30% in meno dei loro colleghi maschi e in alcuni sport il gender pay gap è ancora più alto; ad esempio nel calcio lo stipendio mensile di una giocatrice ammonta a circa 6.000 euro, di certo non paragonabile agli ingaggi stellari di alcuni calciatori. E non è una mera questione di principio e di equità.
Il fatto di diventare professioniste, al pari dei maschi, tutelerebbe le nostre sportive anche dal punto di vista sanitario, previdenziale e contrattuale. Definire “dilettanti” atlete del calibro di Federica Pellegrini, Tania Cagnotto, Flavia Pennetta (solo per citarne alcune), è sminuire i risultati sportivi raggiunti e il loro quotidiano impegno.
Se calendario, fatica e dedizione sono gli stessi, perché i riconoscimenti economici e le tutele sono ancora così impari?
Anche nello sport, come nell’ambito lavorativo più tradizionale, è urgente un cambio di mentalità culturale e sociale. E per ottenerlo sono utili tutti gli strumenti a disposizione; recente esempio la serie televisiva Pitch, in programmazione anche in Italia in questi giorni. La serie racconta la storia di una giovane giocatrice afro-americana che diventa la prima donna professionista a giocare nel campionato di baseball americano. La vicenda purtroppo non è reale, ma anche una rappresentazione cinematografica può aiutare a rompere certi pregiudizi e stereotipi, ben radicati nelle nostre culture.
Dobbiamo fare in fretta perché le nuove generazioni mal comprendono ed accettano trattamenti così sfacciatamente iniqui.