Diversity Equity Inclusion Formazione

Il museo delle etichette

Il museo delle etichette

Memoria fotografica, diverso, disturbato, DSA, intelligenza spaziale, creatività, “è intelligente ma non si applica”, autismo, predisposizione logico-matematica, facoltà umanistiche di serie B, area linguistica, apprendimento mnemonico, mappe concettuali, lezione frontale, ascolto, riassunti, esercitazioni…

Vi starete chiedendo perché alcune parole sono cancellate e altre no. Inizio così questo articolo, con la tecnica della cancellatura, per mettere in risalto i termini che spiegano chi siamo.
Cancello, invece, tutte quelle “etichette” che non coincidono con la filosofia di questo articolo: avere una forma mentis che accetta le diversità.
Prima di iniziare, però, è giusto porsi questa domanda: “che cos’è diverso (per noi)?”

Prima etichetta: La tua diversità, la nostra normalità

Oggi vi sono maggiore cultura e attenzione all’uso delle parole. D’altronde, le parole formano la mente e la mente è formata da parole; sarà poi dalle parole che si scelgono che si trasmette l’immagine di noi alle altre persone.
La diffusione del politically correct ha portato a una maggiore sensibilizzazione verso linguaggi e comportamenti più inclusivi.
Per evitare di cadere in una “moda”, è giusto però interrogarsi su che cosa voglia dire per noi il concetto di diversità.
Perciò, dalla domanda “chi dobbiamo includere?”, ne sorgerà un’altra: “perché consideriamo quella persona, quel gruppo o quella categoria diversi?”.

Il museo delle etichetteOggi il “diverso” da includere coincide con determinate etichette di persone: persone con disabilità, omosessuali, minoranze etniche, donne e via dicendo. Ciò accade perché le pensiamo come persone fragili, vulnerabili, diverse, appunto, e quindi da includere. Questi gruppi di persone si battono nella società per conquistare i diritti loro e di altri individui, scendono in strada sotto le bandiere colorate d’arcobaleno per far sentire un solo coro: quello della normalità! Tutto ciò è giusto, ma l’importante è che tutte e tutti tengano a mente un’unica regola: la bellezza della diversità.

Spesso in queste “battaglie” il focus è ancora incentrato sull’etichettare alcune persone come diverse e quindi da aiutare per potersi sentire “normali”. Forse, però, sarebbe più corretto spostare la prospettiva verso la collettività, pensando a ogni persona come diversa: come una persona che ha bisogno di sentirsi e di essere diversa.
A questo punto, il politically correct da diffondere è: “tutte e tutti noi siamo diverse e diversi, sentiamoci tali, abbiamo il diritto di esserlo”.
Vedete come il timone vira e la meta cambia.

Seconda etichetta: Inclusività nella formazione, o formazione nell’inclusione?

Il mondo della formazione sta iniziando ad assumere una prospettiva sempre più inclusiva, soprattutto dopo la legge 104 introdotta nelle scuole italiane negli anni ‘90. Questa legge mi colpisce perché ha promosso e tutt’ora promuove l’integrazione scolastica, portando il focus sulla cura educativa delle alunne e degli alunni innanzitutto come persone. In particolar modo, spinge alla creazione di un terreno sociale inclusivo e partecipante anche per i soggetti con diverse difficoltà.
Ciò non solo nelle scuole dell’obbligo, ma anche nelle università italiane. Ad esempio, gli uffici attuano progetti per favorire l’inclusività di alcune categorie di persone (come vedremo più avanti).

Il museo delle etichetteTuttavia, è l’inclusione che deve inserirsi nel contenitore della formazione o il contrario?
Com’è possibile includere e, al tempo stesso, formare? La risposta, in tal caso, sta nell’unire questi due mondi e non vederli scissi; tutto ciò, all’interno di un terreno fertile dove, sia chi apprende che chi insegna, si predisponga all’ascolto e a voler autenticamente entrare nel mondo, ciascuno diverso, dell’altra persona, per formarsi.

Ovviamente, sul piano pratico non è semplice. Tutto ciò implica fatica e ulteriore lavoro per chi si occupa di formazione. Significa, in sostanza, ri-progettare la didattica, incluso il sistema di valutazione.
Significa poi formarsi in prima persona all’essere persone inclusive e, in definitiva, portare la formazione nell’inclusione.

Terza etichetta: ecco quattro punti cardinali per un DNA diverso

Per avere un mondo inclusivo, occorre formare persone inclusive.
Un obiettivo raggiungibile, metaforicamente parlando, grazie a una bussola segnata dai quattro punti cardinali (i quattro step) che portano verso l’inclusione.
Il Nord rappresenta il primo passo necessario: occorre sensibilizzare alla comprensione di come ogni persona è diversa, non solo per via del patrimonio genetico, ma anche per le proprie caratteristiche, lo spirito, la storia di vita ecc. Differenze che ci portano a osservare e capire la realtà, rielaborandola in maniera soggettiva, personale e unica.

Successivamente, una volta acquisita tale forma mentis, è importante formarsi e informarsi sull’inclusione; questo secondo step rappresenta il Sud. Formarsi sui diversi processi di apprendimento, sulle nuove metodologie didattiche, sugli applicativi tecnologici di cui ogni persona può servirsi per rendere un contenuto accessibile. Informarsi, invece, porta a conoscere quali siano le peculiarità e le caratteristiche di una patologia e a concentrare l’attenzione sulle potenzialità e non sui limiti della disabilità.

A seguito di questi primi due momenti, è importante poi virare verso Est, ossia verso la progettazione o (meglio) la ri-progettazione. Significa avviare un processo in cui chi forma/insegna sia “a tu per tu” con la materia e gli obiettivi da raggiungere, ripensando a come diffonderli: in quali modi e con quali strumenti.
Infine, questo percorso si conclude a Ovest con l’agire didattico e formativo. Questa è la fase in cui si passa dalla carta all’aula e dove l’insegnante, grazie alla nuova forma mentis acquisita, potrà calare nella pratica gli strumenti formativi che ha appreso.
Con la bussola dell’inclusione si approderà alla meta che si desidera: includere tutte e tutti, nessuno escluso.

Quarta etichetta: progetti per l’inclusione

Per comprendere meglio il lato pratico dell’inclusione, è utile citare alcuni esempi: in particolare i casi virtuosi di due Atenei italiani. Il primo è ALLY: progetto sull’inclusione avviato all’interno dell’Università Cattolica di Milano nel 2021 e successivamente esteso a tutto l’Ateneo. Il suo obiettivo è contribuire alla diffusione di una cultura più inclusiva nelle diverse pratiche didattiche in Ateneo, ciò partendo dalla piattaforma Blackboard e dalla componente Ally. Questa serve appunto a fornire feedback di accessibilità lato docente e lato studentessa o studente. Non solo, i dati che la piattaforma LMS fornisce consentono di tenere monitorato il processo di sensibilizzazione, meta verso cui l’Ateneo si sta dirigendo.

Un secondo progetto che vorrei mettere in luce è quello realizzato dall’Università di Torino, chiamato IRDI. Si tratta di un programma di incontri formativi con il personale docente, finalizzato, da un lato, a evidenziare come sia possibile creare una cultura inclusiva, in primo luogo attraverso la lotta contro i bias e, dall’altro, ad approdare a processi di formazione e valutazione più equi e student centred.

Quinta etichetta: un modo di lavorare inclusivo

Uscendo dal contesto formativo, è importante affacciarsi anche a quello lavorativo, dove sempre più aziende stanno puntando sull’inclusione. Una menzione particolare va fatta ad Accessiway, realtà di Torino che si occupa di sensibilizzare ed educare il mondo sull’importanza dell’inclusione, coinvolgendo in prima persona, lavoratrici e lavoratori con disabilità. Accessiway lavora con svariate realtà lavorative al fine di supportarle verso l’immigrazione inclusiva. In questo modo Internet è reso un luogo per tutte le persone, curando le loro app e pagine web e, fornendo loro report utili per lavorare sull’allineamento alle normative europee richieste.

Non ci sono più etichette

A conclusione di questo articolo ci tengo a riprendere una metafora usata dalla linguista e saggista Vera Gheno nel suo talk “Parole, parole e parole” e che mi ha molto colpito: la metafora del “museo delle etichette”. Immaginatevi dentro a un museo, il vostro preferito, girate in mezzo a teche di vetro con dentro pezzi antichi e preziosi, con di fianco una targhetta inserita a scopo informativo.

Ecco, immaginatevi sempre voi, che girate per i corridoi di un museo e leggete strane etichette dentro a teche di vetro, come “autistico”, “dsa”, “omosessuale”, “travestito” ecc. Quelle pareti di vetro sono i limiti che noi persone “normali” vogliamo imporre a chi è “diversa o diverso” o, meglio, a chi etichettiamo come tale. Forse bisognerebbe abolire le etichette, rompere le teche di vetro e iniziare a far vibrare per le stanze del museo questo motto: “Diverso io, diverso tu, diversi noi”.

Il museo delle etichette

Bibliografia e sitografia

Autore

Alessia Rustichelli

Classe 1997, laurea in Media Education presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, media educator, consulente pedagogica 2.0 e Instructional Designer presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Professionista esperta nei processi e nei linguaggi di apprendimento, nell’ambito comunicativo (ICT e Web 2.0) e formativo, in relazione a diverse strategie da impiegare con differenti target di riferimento.
A inizio carriera, ha già svolto diverse esperienze professionali: ha supportato la redazione di Rai Ragazzi di Torino come tirocinante, ha svolto la figura di formatrice digitale presso il Comune di Milano come stagista; è stata docente della scuola primaria di primo grado e tutor di supporto a livello didattico per adolescenti presso un istituto privato.
Appassionata di tematiche come le parità di genere, l’inclusività e il benessere della persona; ma anche di sport (corsa e calcio), arte (in particolare l’Impressionismo), cucina e della Walt Disney (area su cui ha realizzato entrambe le sue tesi). Fa parte dell’associazione di volontariato dei Leo Club come semplice socia, svolgendo services di supporto al territorio.
Infine, sognatrice ad occhi aperti, punta a unire le sue passioni alla propria professione. La sua mission? Diffondere la Media Education in Italia.

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