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Il coming out lavorativo

il coming out lavorativo
Scritto da Bianca Iula

Il percorso a ostacoli per l’affermazione di genere 

Sono una donna transgender e la mia transizione è iniziata quasi quattro anni fa. Tuttavia, solo da poco e dopo tre anni di relazioni psicologiche, mediche e legali in tribunale ho i documenti al femminile. A causa di carenze normative e di tempistiche molto lunghe, il cosiddetto “percorso di affermazione di genere” è un vero e proprio calvario. La persona trans può iniziare la terapia ormonale sostitutiva (TOS) dopo circa sei mesi di colloqui psicologici, ma il corpo inizia a cambiare in modo evidente dopo circa un anno. Inoltre, la rettifica anagrafica costa circa 3.000a cui si sommano altri costi legati alla transizione per l’epilazione laser, la logopedia per la voce e le operazioni chirurgiche. Si tratta di procedure che non possono essere svolte tramite il SSN e che quindi sono interamente a carico della persona trans. Va da sè che in mancaza di un lavoro o di risorse sufficienti la transizione diventa un percorso ancora più arduo da intraprendere. 

Le implicazioni nel mondo del lavoro 

Cosa comporta avere documenti non conformi alla propria identità di genere nel mondo del lavoro? Una persona trans spesso vive il proprio coming out aziendale con sentimenti di paura e dubbio, anche per timore di perdere il proprio lavoro e di non trovarne un altro. Con la mia associazione ACET abbiamo condotto un’indagine per verificare gli effettivi pericoli legati alla perdita del lavoro. È emerso che se la persona trans è in possesso di una qualifica professionale oppure ha un lavoro in cui non può essere facilmente sostituita, il problema non sussiste.

Ciò che conta è come fai il tuo lavoro e non come appari esteticamente o in relazione a un eventuale dress code dell’azienda. La maggior parte delle persone che hanno risposto all’indagine ricopriva posizioni lavorative ragguardevoli. Tuttavia, la situazione cambia radicalmente nel caso di professioni meno prestigiose o di persone con lavori a tempo determinato. Qui il pericolo di non vedere rinnovato il proprio contratto dopo la scadenza è molto serio.  Nonostante esistano delle tutele per le lavoratrici e i lavoratori, per i datori di lavoro risulta facile aggirare tali norme. 

Il coming out aziendale 

il coming out lavorativo

Comunicare al proprio datore di lavoro che si intende avviare o si è già avviato un percorso di transizione non è semplice. Un primo fattore da considerare è la dimensione dell’azienda. Nel caso di grandi realtà o di multinazionali, occorre verificare le policy aziendali assieme alle Risorse Umane, mentre nel caso di piccole imprese si deve attendere il momento buono” per comunicarlo al titolare dell’azienda. Una volta comunicata tale decisione a chi di competenza, bisogna capire insieme il modo migliore di procedere. In questa fase può essere molto utile mettersi nei panni dell’altra persona e saper arrivare e dei compromessi. Ad esempio, nel corso del primo anno o finchè la transizione non sia a buon punto, può essere utile valutare se ricoprire una posizione lavorativa più defilata, eventualmente riducendo i contatti con fornitori e clienti.  

Ugualmente importante è spiegare se ci siano delle attività che non soddisfano o non sono conformi con il “nuovo” genere. Una comunicazione chiara è essenziale piuttosto che ricorrere ad atteggiamenti bellicosi (a meno che non si stiano subendo mobbing o discriminazioni). La giusta transizione è un incontro tra le due parti e ognuna deve dare qualcosa. Una persona trans che ha fatto il coming out aziendale è più tranquilla e lavora meglio il che rappresenta un vantaggio per l’azienda e si traduce in una situazione win-win. 

Gli esiti di un coming out aziendale sereno 

L’indagine sopra citata che abbiamo condotto ha permesso di far emergere i vissuti delle persone nei primi giorni successivi al coming out:

  • “avevo ancora con il deadnaming (nome anagrafico) e il badge” 
  • “con qualcuno dei colleghi ci sono state allusioni e domande inopportune sulla mia sessualità” 
  • “un collaboratore si trovava in imbarazzo a portare me come docente, in altri contesti ho evitato, per paura di ripercussioni”. 

 I problemi si sono verificati soprattutto per le persone sotto i 40 anni e, dai dati raccolti, è risultato che il 29% di loro si è sentita offesa da commenti verbali (è stato considerato tale anche il solo venire chiamate per nome) e il 18% si è in qualche modo sentito escluso dal lavoro. 

Nell’affrontare situazioni analoghe sul posto di lavoro bisogna avere pazienza e ricordarsi che la transizione rappresenta una novità anche per le colleghe e i colleghi che spesso non hanno avuto nessuna preparazione al riguardo. Si deve evitare di avere atteggiamenti ostili e di chiusura. Commenti fuori luogo o domande sciocche vengono di solito fatti in buona fede così come può capitare di venire appellati con i pronomi sbagliati. Anche in questo caso un atteggiamento accogliente porta nel tempo che questi atteggiamenti ed errori diminuiscano.

Un altro aspetto emerso dalla nostra indagine è stato che la transizione da uomo a donna (MtF) porta a degli svantaggi – come accade spesso alle donne Cisgender – erroneamente definite etero – mentre la transizione da donna a uomo (FtM) implica dei vantaggi e porta ad un aumento della considerazione da parte delle altre persone.

Il ruolo e la responsabilità delle aziende 

Vi sono molti modi in cui un’azienda può venire incontro alle persone trans. Innanzitutto ci si può accordare con l’azienda per l’utilizzo del proprio nome di elezione (quello scelto) e per avere una nuova e-mail aziendale. Non esiste nessun regolamento, ma è sufficiente un accordo scritto con l’ufficio del personale. Attraverso una semplice autocertificazione il datore di lavoro può dimostrare che si tratta della stessa persona venendo sollevato da qualsiasi accusa di falsificazione. Ciò permette anche di rispettare la privacy della persona trans che non ha ancora ottenuto il cambio anagrafico. Anche nei casi in cui le persone trans debbano venire identificate (ad esempio per gestire eventuali reclami dei clienti), non esiste nessun obbligo legale per cui la persona debba mostrare il proprio nome di battesimo; anzi, si tratterebbe di una violazione della privacy da parte dell’azienda. 

Come scritto precedentemente, la persona all’inizio della transizione deve svolgere diverse visite psicologiche, mediche e di controllo. Da questo punto di vista occorre avvisare molto tempo prima l’azienda per cui si lavora per ottenere i permessi: infatti le date delle visite sono stabilite dal SSN e non possono essere modificate senza dover attendere diversi mesi. 

il coming out lavorativo

Le problematiche che una persona transgender deve attraversare durante il proprio iter sono molteplici e, purtroppo, ne esistono molte altre che non riguardano direttamente le aziende. Basti pensare al tema del nome sulla patente di guida o alle prenotazioni di voli o hotel, soprattutto all’estero. Tuttavia, è sempre possibile trovare una soluzione e, nell’ambito lavorativo, giungere a un accordo fra le due parti: la persona dipendente e l’azienda.  

Intelligenza e buon senso dovrebbero sempre prevalere e, qualora questo non avvenga, è sempre possibile cercare un nuovo posto di lavoro. Spesso una persona transgender, soprattuto nel periodo in cui avrebbe più bisogno di supporto, sente di vivere sul filo del rasoio. Ecco perché è fondamentale che nelle aziende e in tutti i contesti lavorativi si sviluppi una cultura inclusiva e rispettosa dei bisogni delle persone transgender. 

 

Autore

Bianca Iula

Bianca Iula è programmatrice web di siti di e-commerce.
Donna transgender, è divulgatrice di tematiche trans negli ambiti del mondo del lavoro, del diversity management, del settore medico scientifico e della medicina di genere.
Nel suo blog ”Simiula” racconta la sua transizione.

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