I bias, o schemi cognitivi, sono delle mappe mentali che ogni persona utilizza quotidianamente per semplificare la realtà che la circonda. Nella sostanza, sono lo strumento attraverso cui interpretiamo e ci muoviamo nel mondo, raccogliamo e ordiniamo le informazioni, stabiliamo nessi causali negli eventi e costruiamo delle ipotesi traendo conclusioni sui comportamenti delle altre persone.
Proprio in virtù della loro natura inconscia, i bias possono rivelarsi da un lato un prezioso oltre che indispensabile tool adattivo, ma dall’altro rischiano di favorire dei comportamenti sulla base di stereotipi e pregiudizi. Quante volte, infatti, ci è capitato e ci capita di associare automaticamente un certo comportamento o attitudine a una determinata categoria sociale, come ad esempio il genere, l’etnia, l’orientamento sessuale o la professione?
Va da sé che, a vari livelli, alcune categorie sociali subiscono maggiormente l’influenza di questi schemi cognitivi i quali, in maniera cumulativa, possono andare a sommarsi a fenomeni di esclusione già esistenti e più visibili. A fianco al fattore puramente cognitivo, inoltre, allo sviluppo e l’utilizzo di simili stereotipi contribuisce anche la cultura di riferimento. Quella in cui viviamo è infatti, una cultura ancora caratterizzata da stereotipi circa i ruoli e le caratteristiche di genere molto radicati che impattano negativamente soprattutto sulle donne. Questi schemi, definiti gender bias, agiscono a numerosi livelli, talvolta più visibili ed eclatanti e altre volte più subdoli, ma non per questo meno insidiosi, trovando terreno fertile in un panorama culturale ancora troppo distante da una reale parità di genere.
Si tratta, appunto, di meccanismi automatici che, nei diversi contesti organizzativi, svantaggiano le donne rispetto agli uomini, agendo su molteplici livelli: a partire dal recruiting, passando per i processi di assunzione e con ripercussioni anche nei percorsi di carriera.
I gender bias
Con gender schema si intende quell’insieme di ipotesi e credenze che attribuiamo al fatto di essere uomo o donna. Due esempi concreti di applicazione i riguardano le posizioni di leadership e le professioni scientifiche. Salvo rare eccezioni, è più comune associare al concetto di leadership caratteristiche che la società tende ad attribuire, con maggiore frequenza, al maschile come ad esempio l’autorevolezza, la razionalità e la capacità di prendere decisioni. Analogamente, tendiamo a pensare, erroneamente, che gli uomini abbiano maggiori capacità logico-strumentali e di calcolo rispetto alle donne.
Per questo motivo, tenderemo a considerare gli uomini come più adatti al lavoro dello scienziato. Viceversa, se ci immaginiamo una professione legata ai cosiddetti “ruoli di cura” – come l’insegnamento, il supporto psicologico, l’infermieristica – automaticamente tendiamo a fare un’associazione con il femminile. E questo in virtù di supposte qualità innate come l’empatia, la capacità di ascolto o di essere a contatto con le proprie emozioni.
Poiché i gender schema riguardano anche le competenze professionali, essi deformano la valutazione delle performance. Con il termine “segregazione orizzontale” si fa riferimento alla capacità di tali bias di stabilire cos’è un lavoro maschile e uno femminile. Mentre per “segregazione verticale” si intende la capacità dei medesimi schemi di stabilire la giusta posizione di donne e uomini all’interno della gerarchia aziendale.
Gli strumenti a disposizione delle aziende per aumentare la consapevolezza
Camilla Gaiaschi è Consultant di Wise Growth e ricercatrice presso l’Università del Salento. In un’intervista ci ha offerto una panoramica molto interessante e dettagliata sullo “stato dell’arte” dei processi di recruiting, selezione e inserimento lavorativo in ambito aziendale e accademico. la sua area di ricerca ha riguardato ultimamente soprattutto l’ambito scientifico e le cosiddette carriere “S.T.E.M.” (Science, Technology, Engineering and Mathematics), tradizionalmente appannaggio maschile.
In questi settori, afferma “le donne continuano ad essere svantaggiate in tutti i processi: dall’assunzione, alla crescita professionale e alla formazione”. Il primo passo per poter far fronte e intervenire sui bias di genere è quello di prenderne consapevolezza. Esistono infatti alcuni strumenti come le factorial surveys (chiamate anche “vignette studies”) che indagano i bias che le persone automaticamente attivano nel momento in cui vengono messe di fronte alla richiesta di prendere una decisione.
I comportamenti che ha indagato la ricerca riguardavano in particolare i processi di selezione e formazione da parte del team HR. Un esempio concreto, e per molti versi preoccupante, ci arriva dall’ambito accademico. È stato infatti proposto al recruitment di individuare delle persone da assumere sulla base di una particolare misura di performance: il numero di pubblicazioni come “primi autori”.
La disparità fra donne e uomini in ambito accademico
Alessandra Lazazzara è Senior Consultant di Wise Growth e professoressa Associata di Organizzazione Aziendale e HRM presso l’Università di Milano. Assieme a Gaiaschi ha condotto la ricerca in cui, afferma essere emerso che “per essere considerati competenti per il ruolo a cui si candidavano agli uomini era sufficiente avere nel curriculum due pubblicazioni come primo autore.
Le donne, invece, avevano bisogno di avere sei articoli in cui comparivano come prime autrici per essere considerate competenti tanto quanto i candidati uomini e avere le stesse probabilità di essere assunte”. Un esempio già allarmante di per sé e reso ancora più grave dal fatto che, a questo svantaggio iniziale, si aggiungesse un maggiore fabbisogno, segnalato dai reclutatori, a seguito di una potenziale assunzione, di formazione e mentoring per le candidate donne rispetto ai candidati uomini.
Agire sulle cause del fenomeno
Come detto, gli schemi cognitivi sono mappe mentali inconsce e spesso invisibili. Per renderli visibili, occorre mettere a disposizione del recruitment e del people management strumenti pratici per agire su questi meccanismi. È necessario, d’altra parte, agire anche sui fenomeni educativi che, fin dalla giovane età, contribuiscono allo sviluppo di questi stereotipi. Afferma infatti Lazazzara: “ogni persona è stata esposta a dei processi educativi che le hanno trasmesso degli schemi mentali rispetto a cosa sia giusto e sbagliato dell’essere uomo e donna e, ancora prima, bambino o bambina.”
Evitare, in queste fasi, di proiettare sui figli le proprie aspettative come genitori, è un primo e fondamentale passo che può contribuire a creare rappresentazioni più eque e non stereotipate in futuro. Il fattore culturale agisce anche su altri piani, ad esempio ripercuotendosi nel cosiddetto bias “della benevolenza”. Una donna incinta, ad esempio, può vedersi precludere determinate opportunità sul posto di lavoro. E questo non tanto perché non sarebbe concretamente in grado di coglierle, ma perché la sua condizione di caregiver (presunta o reale che sia) può attivare comportamenti “protettivi” nei suoi confronti senza che, tuttavia, questa accortezza sia stata esplicitamente richiesta né la persona sia stata interpellata.
Rimanendo in questo esempio, appare evidente come i bias possano essere cumulativi, andando quindi a generare molteplici svantaggi in chi li subisce. In questo modo, alla lunga, il rischio per le donne di vedersi precludere un’opportunità lavorativa aumenta e la forbice si allarga, facendo crescere di pari passo un divario già esistente nei confronti dei colleghi uomini.
Possibili sviluppi futuri
Seppur con ritmi lenti e differenti a seconda dei diversi dei contesti, ad esempio il mondo aziendale e quello accademico, alcuni traguardi in termini di consapevolezza sui gender bias sono stati raggiunti. Certo è che purtroppo la strada da fare per raggiungere la gender equity è ancora tanta.
I livelli su cui intervenire sono diversi, conclude Lazazzara: “alcune possibili soluzioni vanno nell’ottica della riduzione della discrezionalità affidata alla singola persona che si occupa di recruiting. Ad esempio, può aiutare in questi casi affidarsi ad un panel di valutazione che usi criteri standardizzati e differenziati.” Un’altra soluzione, più concreta, chiama in causa la volontà da parte della leadership di esporsi, assumendosi l’onere di adottare questi strumenti correttivi all’interno delle organizzazioni.
Infine, è importante che questa consapevolezza si diffonda anche presso chi si occupa di comunicazione rispetto ai temi DEI (Diversity, Equity & Inclusion). Spesso, infatti, perfino chi dovrebbe avere una conoscenza più approfondita di tali tematiche, rischia di incorrere in facili stereotipi e in rappresentazioni delle donne e degli uomini che non fanno altro che cristallizzare gli stessi bias che ci si propone di contrastare.