Lo scorso Aprile si sono svolte due tavole rotonde online, organizzate e moderate dalla dott.ssa Laura Lazzari Vosti in collaborazione con la Fondazione Sasso Corbaro. Nel doppio incontro si è discusso il rapporto fra medicina, linguaggio e genere, e, con la mia partecipazione, ho portato il punto di vista delle donne transgender.
Nella prima parte (qui il link della registrazione) sono stati esposti alcuni punti di vista transgender, medici e sociologici, mentre nella seconda parte, a cui ha preso parte la linguista Vera Gheno il focus è stato sugli aspetti linguistici e grammaticali in relazione al genere (link per la registrazione).
Nel corso delle due tavole rotonde, ogni partecipante ha arricchito la discussione portando la sua esperienza, fornendo informazioni e raccontando la propria storia. In questo articolo tratterò alcune tematiche relative all’ambito medico delle persone transgender, soffermandomi anche su alcune questioni linguistiche che sono emerse nel corso degli incontri.
Che cos’è la Medicina di Genere?
Con il termine “Medicina di Genere” si intende la pratica di cura basata sì sul genere biologico, ma includendo anche altre variabili come l’età, il fisico, l’essere transgender e su un accurato dosaggio dei farmaci. Negli anni Novanta infatti, negli Stati Uniti, diverse donne sono morte a causa della cattiva risposta a farmaci che erano stati testati solo sugli uomini. All’epoca, infatti, non si era pensato che le dosi testate su un uomo, bianco, cisgender di trent’anni potessero essere letali per un fisico più esile e con un’attività ormonale differente.
Tale pratica, purtroppo, è in vigore ancora oggi: infatti, a causa del costo elevato degli studi clinici, si continua ad affidarsi a ricerche eseguite su un campione solo maschile e quindi non rappresentativo della totalità della popolazione.
Inoltre, esistono ancora dei farmaci che, secondo alcune case farmaceutiche, sono adatti a tutte le persone, indipendentemente dal genere e da altre condizioni fisiche, con la sola differenza della dose di farmaco presente nelle confezioni.
Fare delle analisi e delle diagnosi specifiche per il genere ha degli effetti positivi anche sulla cura. Nel mio caso di donna trans, ho una circolazione del sangue piena di ormoni, non ho quasi più testosterone, la pelle e l’odore corporeo sono diversi rispetto a prima. Un farmaco studiato solo sugli uomini oppure solo sulle donne potrebbe indurmi effetti collaterali imprevisti in virtù del fatto che non esistono studi clinici sulle persone trans né sulle interazioni farmacologiche.
La comunicazione tra personale medico e paziente
Nonostante esistano da diversi anni dei corsi rivolti al personale medico per migliorare la comunicazione, i risultati non sono ancora soddisfacenti. Uno dei fattori che intacca questo processo è la mancanza, da parte del personale medico, di tempo dedicato all’ascolto che spesso fa sì che non si vada oltre la mera prescrizione di ricette. Un altro limite alla comunicazione è dato dalla tendenza da parte delle e dei pazienti, soprattutto in età avanzata, a interpellare il personale medico anche in assenza di una reale patologia a cui si aggiunge la difficoltà a comprendere le prescrizioni mediche.
Fra gli esiti di questa comunicazione deficitaria c’è, da una parte, l’eventuale difficoltà del personale medico di scoprire tutti i sintomi e, dall’altra, una minore compliance alla cura, che si traduce anche nell’assunzione di farmaci in modi e tempi diversi da quanto prescritto.
Un’ulteriore questione che riguarda l’ambito transgender è quella dei documenti non rettificati; alla persona trans occorrono infatti almeno tre anni per ottenerli. In questo periodo, il personale medico si relaziona con una persona trans a tutti gli effetti, ma la tessera sanitaria riporta delle informazioni discordanti. In questa fase, l’utilizzo dei pronomi non conformi può provocare un malessere psicologico alla persona misgender, portandola o a non rivolgersi più a quella figura se non addirittura ad annullare le visite, non facendo più nessuna forma di prevenzione sulla propria salute. Occorre dunque, in ambito medico, migliorare la comunicazione empatica e non paternalista fra pazienti e personale medico.
Si può usare la parola transessuale nel 2023?
Spostandoci ora sul piano linguistico, dal confronto è emerso che per le persone di oltre cinquant’anni è quasi naturale e non offensivo usare il termine transessuale. Sono della stessa opinione anche le persone trans, perché la loro transizione è avvenuta in un’epoca in cui esisteva solo quella definizione. Il termine transgender invece è più recente, più preciso e inclusivo: consente infatti di definire anche le persone non-binary e di genere non conforme. Anche il termine “percorso di affermazione di genere” aiuta a sottolineare meglio il vissuto della transizione. Ne è un esempio il fatto che, In Italia, non è più necessario dal 2015 sottoporsi a un intervento chirurgico per cambiare i propri documenti.
Perché è importante utilizzare un linguaggio ampio e inclusivo
Negli ultimi tempi, vi sono stati e vi sono numerosi tentativi di adottare una grammatica e dei simboli nuovi per includere tutte le persone che si identificano nel mondo LGBTQIA+. A questi tentativi si accompagnano anche dei limiti di tipo fonetico in quanto alcuni dei simboli che sono stati adottati funzionano nella lingua scritta, ma sono meno adattabili al parlato. Ne sono alcuni esempi la schwa, l’uso della lettera “u” e degli asterischi per indicare il genere neutro
In ogni caso, si tratta di un linguaggio ancora poco in uso nelle comunicazioni ufficiali o presso persone poco informate sulle tematiche LGTBQIA+. La soluzione, come ha specificato la Dott.ssa Gheno nel corso del suo intervento, è da trovarsi nell’adozione di un linguaggio che lei definisce “ampio”, più che inclusivo. Quest’ultimo termine, infatti, pone alcune implicazioni in quanto presuppone che per esserci “inclusione” debba esserci chi include e chi viene incluso.
La lingua italiana permette di esprimere concetti alla pluralità e neutralità dei generi ma, per farlo, occorre usare frasi più lunghe e complesse anche se più facili da utilizzare nello scritto che nel parlato.
Alcuni spunti per l’utilizzo di un linguaggio “ampio”
Una prima indicazione è quella di ridurre il più possibile l’uso del maschile sovraesteso, usando invece circonlocuzioni come ad esempio “le persone in reparto”, “il soggetto malato”, “chi deve intraprendere una terapia” al posto “del paziente”; “Il personale medico”; “l’utenza ospedaliera” al posto del “medico” così come appunto la definizione ” persone non binarie” o “transgender”
Con le persone transgender, spesso, il problema non si pone in quanto la persona vuole essere identificata con il genere “di arrivo”. Quindi, se ti senti maschio, vuoi che sia usata la grammatica maschile e viceversa per le donne. Con le altre persone è sufficiente, durante un colloquio, chiedere quali pronomi utilizzare, anche se, dalle mie esperienze, quasi tutte le persone non binarie dicono di usare pronomi maschili. Purtroppo, mettere in atto queste good practices non è scontanto e spesso si tende a non prestare la giusta attenzione a queste tematiche così delicate. Parlando a un pubblico di cui non si conosce l’identità di genere, la cosa più veloce e inclusiva è esordire con “un saluto a tutte e tutti”, lo stesso può essere fatto in un articolo, ma con più accortezza, come indicato in precedenza.