Disabilità Diversity Grandangolo

La lezione di Carugate: disabilità e inclusione, dal posto auto al posto di lavoro

Fine agosto 2017, si diffonde sui social e sui quotidiani una notizia molto particolare: nel parcheggio sotterraneo del Centro Commerciale Carosello di Carugate, in corrispondenza di uno dei posti riservati ai disabili (i più prossimi alle scale mobili e agli ascensori di entrata al mall), compare un cartello dalle parole irripetibili, in pratica: tu che hai chiamato i vigili e mi hai fatto prendere 60€ di multa, rimani un handicappato e io ne sono felice.

Dalle ricostruzioni pare che poche ore prima un automobilista senza diritto abbia parcheggiato sul posto riservato ai disabili. Una persona disabile, trovato il posto occupato da un’auto senza contrassegno, pare abbia segnalato la cosa alla Polizia Municipale e provocato l’applicazione di una multa. La notizia fa il giro di notiziari e quotidiani, accompagnata dalla netta condanna dell'”odioso cartello” da parte di tutti. Intanto sui social si spendono moltissime ore e parole infervorate sull’automobilista in questione, nonchè sulla società in generale, sui valori e sui princìpi, ma soprattutto sull’espressione di emotività forti quanto primordiali.

Tornerò tra poco su questo caso specifico. Prima però mi sembra utile rispolverare un luogo comune tanto vero quanto scientificamente provato: la guida è qualcosa che scatena il peggio di noi. Ricordo un cortometraggio Disney su Pippo automobilista che giustamente iniziava con la frase “l’individuo normale è una creatura dai comportamenti strani e imprevedibili“. Il cortometraggio ci presenta il signor Walker, buono come il pane che non farebbe male a una mosca, il quale, una volta al volante, “viene preso da un’incontenibile sete di potere… dando luogo ben presto a un mostro incontrollabile” tipo Mr. Hyde. Il resto è da vedere: un dolceamaro ritratto di ciò che ci capita alla guida. Per non parlare dei parcheggi e dei relativi litigi, che qualcuno ha addirittura studiato nel dettaglio come esempio prototipico di conflitto (Orletti 1994).

Perchè l’automobile scatena il peggio di noi? Per almeno tre ragioni:

  1. Perchè quando guidiamo – specialmente se lo facciamo, come quasi sempre accade, per arrivare in un posto in un determinato tempo – entriamo in una modalità finalizzata dove il “chiodo fisso” è l’obiettivo e tutto ciò che sembra separarci da esso (comprese le altre persone) è visto soltanto come un ostacolo;
  2. Perchè la nostra comunicazione è bloccata e questo innesca lo sfogo emozionale incontrollato e (si spera) senza conseguenze; all’interno dell’abitacolo, lo sfogo emotivo si accumula, monta, e può poi erompere continuativamente o all’improvviso attraverso mezzi ultra-semplificati (clacson, gesti, o – al limite – urla dal finestrino), oppure in alcuni casi preparare un incontro faccia a faccia nel momento in cui si scende dall’auto; un po’ come quanto accade con i social network, ma questa è un’altra storia;
  3. Perchè dal posto di guida abbiamo pochissimi indizi sulle persone negli altri veicoli, e questa è la situazione ottimale nella quale scattano stereotipi e pregiudizi per orientare l’azione (la donna al volante, il vecchio col cappello, il macchinone gigantesco e costosissimo, la vecchia carretta…). È su quei pochi indizi che scateniamo la nostra emotività, degli altri non sappiamo nulla – da dove vengono, dove vanno, qual è il loro stato emotivo – e ci va benissimo così.

Probabilmente queste dinamiche sono principalmente maschili, ma su questo bisognerebbe fare ricerche più accurate, perchè non mancano i controesempi.

Tornando però all’eroico automobilista che arriva al Centro Commerciale di Carugate dopo (verosimilmente) una strada fatta di clacson, abbaglianti, sorpassi nervosi e accelerazioni, egli sente che per qualche motivo deve assolutamente fare in fretta ad entrare nel centro commerciale, sterza stizzito e parcheggia sul posto dei disabili “tanto ci sta poco“. Deve raggiungere la meta, non conosce persone disabili e in special modo non conosce chiunque giungerà lì nei prossimi minuti: con loro non intratterrà alcuna comunicazione diretta, soltanto quella indiretta mediata dagli oggetti (l’auto lasciata in sosta). Forse in questa situazione subentra anche un altro istinto profondo: un istinto che dice che in fondo gli ausili non sono giusti, che ognuno dovrebbe arrangiarsi, che tutti devono essere trattati allo stesso modo, che “non è giusto che io non possa parcheggiare qui”, punto e basta. Parlo di istinto perché non è detto che esso sia rinforzato da una convinzione cognitiva, sebbene in realtà spesso sia proprio così.

Eppure in fondo è logicamente semplice capire che nessuno “nasce con le opportunità”, bensì è sempre e comunque il trattamento differenziato ad essere la fonte delle opportunità, e quindi a rendere possibili pari opportunità per tutti.

D’altra parte anche la persona disabile, arrivata pochi secondi dopo, non sa nulla di chi ha parcheggiato lì. Vedendo un’infrazione alle proprie tutele, si appella all’autorità. Probabilmente anche questo gesto è carico di emotività, contrariamente a quanto sarebbe accaduto negli Stati Uniti o in altri Paesi a cultura marcatamente “universalistica” (Trompenaars 1993), dove le regole non vengono interpretate e negoziate nella relazione.
In Italia chiamare i vigili è spesso istintivamente e culturalmente visto come un comportamento “da infame”, anche da chi lo fa in prima persona, mentre in paesi anglosassoni l’evento è quasi neutro dal punto di vista emotivo e relazionale.

Certo, anche i dispositivi di ausilio e di tutela a volte possono essere oggetto di discussione, come ci insegna Checco Zalone nel fulminante spot a favore della ricerca sulla SMA (Atrofia Muscolare Spinale). Anche qui siamo in un parcheggio, e la discussione è se sia opportuno o meno riservare un posto auto a un ragazzo malato di SMA. Ma il tono è del tutto differente, pieno di ironia e di parità, quelle qualità che solo una relazione di fiducia consolidata consente.

Nella storia di Carugate, di qui in poi vi è evidentemente qualche problema psicologico serio, perché l’automobilista, trovata la multa, decide di andare a casa, stampare un cartello e tornare ad affiggerlo. Un cartello che recita, tutto in caratteri maiuscoli: “A te handiccappato (sic) che ieri hai chiamato i vigili per non fare due metri in più vorrei dirti questo: a me 60€ non cambiano nulla ma tu rimani sempre un povero handiccappato…… [in rosso] sono contento che ti sia capitata questa disgrazia!!!”. Ogni follia è la degenerazione di processi che sono fisiologici e normali, tuttavia sì: è follia.

I problemi individuali, si sa, hanno un loro corso di degenerazione e, nei casi fortunati, di cura. La domanda però che ci possiamo porre è a livello sociale: come si curano queste patologie sociali, i processi di esclusione quotidiana, le situazioni che ci mettono in condizione di comportarci da matti e da barbari come Mr. Walker?

Un contesto privilegiato di integrazione è senza dubbio il mondo del lavoro. La presenza di persone diverse, ad esempio portatori di disabilità di vario genere, nel contesto lavorativo è un’opportunità unica per i lavoratori e per le aziende.

Qui troviamo molti ingredienti opposti alla situazione dell’automobilista: c’è un noi (l’azienda) e obiettivi collettivi, c’è una continua comunicazione che familiarizza gli uni con gli altri, c’è una conoscenza dell’altro con i suoi pregi e i suoi limiti, le sue motivazioni, la sua storia, il suo carattere, che ci abitua a vedere l’altro come persona competente che contribuisce per quanto gli compete. Ci si educa a vedere nella giusta luce gli ausili e le tutele, che permettono a tutti di vivere e lavorare meglio.

Il lavoro è un contesto che può divenire educativo anche per la società, sia attraverso la circolazione di persone che al lavoro fanno esperienza di diversity, sia attraverso la diffusione di immagini aziendali inclusive (immaginiamo, così tanto per sognare, di vedere per strada vigili urbani disabili).

Certo, tutto questo non è assolutamente automatico, ma vi sono grandi aziende che sono assolutamente all’avanguardia su questi temi, e dirigenti illuminati che rendono tutto questo possibile e che costruiscono una cultura organizzativa inclusiva.

Purtroppo l’accesso dei disabili al mondo del lavoro è ancora molto scarso, come ha spiegato Daniele Regolo in un precedente articolo. Ci sono segni di cambiamento, che discendono da novità normative e nuove sensibilità sociali, ma la strada è ancora lunga e transiterà sia da sperimentazioni aziendali che da formazione specifica e diffusa della popolazione. Forse non vedremo un giorno senza più belve umane al volante e senza più cartelli che insultano “handiccappati” e altre categorie di persone. Ma potremo volgerci indietro ed essere contenti e orgogliosi dei passi fatti verso una maggiore inclusione e integrazione della pluralità.

Franca Orletti (1994), Fra conversazione e discorso. L’analisi dell’interazione verbale, Carocci.
Fons Trompenaars (1993), Riding the Waves of Culture: Understanding Diversity in Global Business, McGraw-Hill

Autore

Emanuele Serrelli

In Wise Growth dal 2015, ha sviluppato esperienze formative e ricerche focalizzate sulla movimentazione di stereotipi, pregiudizi e “visioni tunnel” all’interno dei contesti lavorativi e ha inoltre fondato e coordinato l’area disabilità.

Dottore di ricerca in Scienze della formazione e della comunicazione con numerose esperienze internazionali, è autore di molte pubblicazioni: tra le più recenti La cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione, con M.C. Bombelli, Guerini 2021.

È docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove collabora anche con la UNESCO Chair on Education for Human Development and Solidarity among Peoples, con il CESVOPAS Centro Studi sul Volontariato e la Partecipazione Sociale, e con i corsi di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione e in Media Education.

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