Sono stata tra le prime consulenti in Italia ad introdurre il tema dell’inclusione delle diversità in azienda e, quasi contemporaneamente, sono stata tra le prime a mettere in luce i rischi dell’eccesso di identità, per parafrasare Marco Aime¹.
L’intervista di Stefano Gabbana evidenzia in modo semplice e molto comprensibile le trappole in cui si potrebbe cadere sottolineando in modo esasperato una parte per l’intero, ovvero un singolo aspetto di una identità – certamente composita – ma che ha una base comune, quella dell’essere umano e della dignità che è dovuta ad ogni persona.
Ci si muove evidentemente su un crinale: nei contesti sociali, ma soprattutto aziendali (che sono quelli di cui mi sono occupata in questi anni) spesso avvengono dinamiche di esclusione delle persone in virtù di alcuni aspetti della loro identità. Una donna potrebbe non essere ritenuta valida per una posizione rilevante in quanto donna, appunto, fenomeno ancora purtroppo molto presente, oppure in quanto madre, perché si pensa – spesso a torto – che essendo impegnata su altri fronti non potrà mai essere dedita al lavoro quanto una single o una donna senza figli. Oppure, come nel caso dell’orientamento sessuale, una persona potrebbe essere presa in giro o messa alla berlina per il suo stato e le sue scelte.
Molti sono gli esempi che possono mettere in luce “dinamiche di esclusione dalle opportunità” che non sono legate alle competenze o alle attitudini ma ad altri aspetti – evidentemente stereotipici – che vengono utilizzati spesso anche in modo inconsapevole, per escludere alcuni dal composito universo delle opportunità possibili.
Ma Stefano Gabbana fa un passo oltre e dichiara apertamente il disagio dell’essere poi intrappolati in una definizione, ovvero in una parte della propria identità che nel momento in cui è denunciata come fattore di esclusione assume a pieno titolo l’unico elemento caratterizzante, che facilmente si tramuta in stigma².
In parole semplici la terapia spesso peggiora il sintomo invece di guarirlo.
Come uscire da questa trappola?
La mia proposta personale è, da tempo, quella che anche Gabbana suggerisce ovvero: tornare ai fondamentali.
Le persone, al di là dei alcuni aspetti della propria identità, sono accumunate da bisogni fondamentali: la sopravvivenza, la sicurezza, il desiderio di essere considerati, ascoltati, amati; bisogni che non possono evidentemente risolversi tutti e solo nei luoghi di lavoro, ma che devono essere tenuti presente per costruire relazioni di rispetto che salvaguardino la dignità e il riconoscimento delle persone.
E’ partendo da questo elemento culturale che si può costruire un contesto inclusivo che, a dispetto delle singole specificità, metta a fuoco una cifra stilistica che garantisca l’ascolto e la comunicazione, che sottolinei i rischi delle facili battute, dell’irrisione senza fondamento, del machismo gratuito, dell’illazione facile. Un contesto in cui venga riabilitata una parola desueta ma che diventa fondamentale, ovvero la cortesia. Una dimensione oggi spesso trascurata nella fatica quotidiana del sostenere ritmi vorticosi, tempi sempre troppo stretti, scadenze ravvicinate ed aggressività gratuita.
La risposta è quindi operare in modo ampio sulla cultura aziendale, evitando dei particolarismi eccessivi.
Detto questo resta però il tema dell’occupazione dei luoghi di potere da parte di persone con alcune caratteristiche precise che diventano omologanti e, di conseguenza, escludenti verso “i diversi” (gli wasp americani per intenderci, White Anglo-Saxon Protestant, a cui si potrebbe aggiungere men).
Come possiamo affrontare queste criticità? attraverso la consapevolezza della propria cultura, cercando di comprendere dove e in che modi possa risultare discriminante per alcuni.
La proposta implicita di Gabbana è quindi condivisibile: vi sono alcuni elementi della nostra identità che ha senso declamare solo in alcuni momenti particolari (ad esempio per attirare l’attenzione su una discriminazione) ma che poi, legittimamente, possono restare privati lasciando al singolo la scelta – la libertà – di descriversi con alcuni aspetti e non altri della propria identità. Perchè è quando un solo elemento viene preso a rappresentanza dell’intera persona che si cade in facili riduzionismi e discriminazioni.
Ciascuno di noi potrebbe fare il gioco di elencare i propri tratti distintivi e inserirsi via via in diversi “cluster”: il genere, il luogo di provenienza, il credo religioso, l’età, la generazione, le appartenenze politiche e così via. Siamo spezzettati in tantissime appartenenze che, ricomposte, formano l’unicità e la stupenda singolarità della propria persona.
Nel palcoscenico della vita poi ciascuno di noi decide, a seconda del luogo e delle opportunità, quale parte di sé mostrare.
¹ Marco Aime – Eccessi di culture
² Goffman – Stigma, l’identità negata