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Formazione locale o globale? Alla ricerca di nuovi equilibri

Formazione locale o globale?

Il tema dell’equilibrio tra accentramento e decentramento è molto importante dal punto di vista organizzativo e spesso non tiene conto di alcuni elementi cruciali di diversità.

La tendenza che si osserva è verso un accentramento dei sistemi operativi di gestione, strada battuta oramai da anni dalle multinazionali americane, che generalmente poi fungono da modello per le altre nazioni. Dietro questa scelta si cela un desiderio naturale di controllo e di uniformità che spesso però non tiene conto delle realtà locali.
Molti anni fa, nel pieno della crisi, ricordo un amministratore delegato di una realtà francese basata in Cina che sottolineava come gli obiettivi globali erano in totale controtendenza con quelli locali e, per crescere, doveva attuare manovre semi-occulte per differenziarsi dalle strategie top-down a cui avrebbe dovuto attenersi.

Un’altra realtà con cui ho collaborato vendeva a catalogo a piccoli artigiani. L’indicazione del quartier generale fu di passare alla promozione e vendita web, non tenendo conto che la realtà italiana, a quel momento ovviamente, non era per nulla attrezzata. So che sembrano esempi paradossali, ma basta lavorare in una grande multinazionale per rendersi conto che questo avviene molto spesso, perdendo i mercati locali. Il buon senso direbbe che le realtà locali vanno tenute presente e non solo per una questione di “inclusione”, ma anche di mercato e di obiettivi.

In questo scenario si inserisce il tema della formazione, uno strumento assolutamente strategico nel mondo attuale, che consente a imprese e persone di restare aggiornati in un contesto in mutamento e di affrontare con consapevolezza le sfide che vengono richieste.

Formazione locale o globale?

Anche in questo campo stanno iniziando a prendere piede due tendenze, tra loro collegate: la prima è appunto la centralizzazione, con programmi progettati da un nucleo di formazione globale che “distilla” parole d’ordine e messaggi chiave che poi vengono distribuiti nel mondo attraverso una modalità top-down; spesso, per ottimizzare questa opera di uniformazione, si passa completamente al digitale, progettando spunti, anche molto attraenti, che vengono poi lasciati alla fruizione individuale.

Certamente in questo modo viene raggiunto un obiettivo che non può essere sottovalutato: una coerente comunicazione sia di valori che di approcci, nonché la condivisione di prassi operative che si ritengono favorevoli all’azienda e che ne connotano la “cifra stilistica”.
Purtroppo però gli aspetti negativi sono molti. In primo luogo la riduzione delle persone ad oggetti, piuttosto che soggetti del proprio apprendimento. Dopo anni in cui, come formatori, abbiamo consolidato metodologie attive sostenendo la partecipazione in prima persona, nella consapevolezza che questo tipo di approccio d’aula favorisse un migliore e più stabile apprendimento, ci troviamo ricacciati – sia come progettisti di formazione che come utenti – nella passività.

Un secondo aspetto, non meno importante, riguarda la lingua. I “confini linguistici” sono un tema di gestione delle diversità spesso sottovalutato. Ovviamente per comunicare tra nazioni si utilizza il media ormai riconosciuto come dominante: la lingua inglese. Questo fatto, incontrovertibile e inevitabile, differenzia però in modo sistematico un accesso alle opportunità, tanto che spesso il viatico per acquisire posizioni rilevanti è un’ottima conoscenza della lingua inglese. Con ogni probabilità non si può fare altrimenti, ma tenere presente questo fattore come rilevante per l’inclusione significa operare in modo sistematico per ridurre questo gap che certamente nasce al di fuori dell’azienda (nei diversi sistemi scolastici nazionali) ma che ha profonde ripercussioni nei percorsi di carriera. Certo le persone ci devono mettere un impegno, necessario sia a livello di motivazione che di responsabilità concreta.

Considerazioni che probabilmente non avranno più ragion d’essere quando tutti coloro che lavorano in contesti multinazionali avranno le stesse competenze linguistiche, ma che – viste con gli occhi odierni – configurano una sorta di vantaggio in una corsa in cui le basi dovrebbero essere condivise.

Certo “lingua madre” è una locuzione che contiene in sé il significato di una lingua che rappresenta una porzione di identità, le relazioni profonde, l’ironia potenziale, le similitudini e le incomprensioni. In diversi momenti di condivisione internazionale – ad esempio convegni e seminari – capita spesso, all’inizio della giornata, di trattenersi e conversare con tutti gli altri partecipanti, poi, quando la stanchezza aumenta, si osserva invece il formarsi di un “agglutinamento” linguistico, in cui le persone si rilassano parlando con i propri connazionali.

Nei setting formativi, soprattutto quelli tradizionali in presenza, la domanda è quanto sia possibile approfondire in una lingua non “materna”. Nei percorsi di formazione che con molti colleghi conduco, si affrontano tematiche complesse che riguardano la propria identità e le relazioni che si compongono all’interno del luogo di lavoro, con riferimenti approfonditi alle cause di conflitto e di asperità. Sono temi trattabili con il riduzionismo linguistico che diventa necessario se non si utilizza la propria lingua?

Ovviamente non esistono risposte univoche. Si tratta però di tenere presente questi rischi, cercando, con flessibilità ed intelligenza, di affrontare elementi di esclusione potenziale.
Molte aziende che si distinguono per un approccio più equilibrato tra globale e locale sviluppano da un lato una progettazione accentrata (anche via digitale) che consenta di condividere i principali messaggi chiave, dall’altra però, favoriscono la formazione locale: percorsi “blended” in lingua “madre” in cui la co-presenza, la collaborazione e il confronto siano ancora un valore.

Questo non significa isolamento, ma bilanciamento delle differenti prospettive, tenendo conto che l’equilibrio globale e locale sarà continuamente in cambiamento e che quindi sarà necessario apportare sempre degli aggiustamenti, per limitare da un lato la chiusura nel proprio cortile e dall’altro l’esposizione identitariamente sradicata alle tempeste del globo.

Autore

Cristina Bombelli

Fondatrice di Wise Growth, si è occupata di Diversity & Inclusion dagli anni ‘80.

È stata professoressa presso l’Università di Milano-Bicocca e per anni docente della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi dove ha fondato il primo centro studi di ricerca sul tema. È stata visiting scholar presso l’Università di La Verne in California.
È pubblicista e autrice di numerosi articoli sui temi del comportamento organizzativo e della gestione delle diversità. È stata presidente della fondazione “La Pelucca” onlus, dedicata ad anziani e disabili. È certificata IAP di THT (Trompenaars Hampden – Turner) per la consapevolezza interculturale, executive coach con Newfield e assessor con Hogan.

Ha pubblicato numerosi libri tra i quali i più recenti: Alice in business land. Diventare leader rimanendo donne, 2009; Management plurale. Diversità individuali e strategie organizzative, 2010; Un manager nell’impero di mezzo, 2013; Generazioni in azienda, 2013; Amministrare con sapienza, la regola di San Benedetto e il management, 2017; La cultura del Rispetto. Oltre l’inclusione, 2021.

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