Come insegna il pittore Elstir al narratore della Recherche, quando si guarda qualcosa, ciò che conta, più ancora dell’oggetto guardato, è lo sguardo. E’ nella qualità dello sguardo, nel “pregiudizio” che contiene, che l’oggetto guardato si deforma per aderire alla personalità di chi lo osserva.
Elstir parla ovviamente da pittore e in quei termini Proust ne riferisce: “Lo sforzo di non rappresentare le cose così come sapeva ch’esse erano, ma secondo le illusioni ottiche di cui consta la nostra prima visione, aveva indotto Elstir a mettere appunto in luce alcune di tali leggi prospettiche”.
Nel personaggio di Elstir c’è parecchio di Monet (e anche di altri artisti dell’epoca) e quelle parole racchiudono la poetica degli impressionisti; le possiamo facilmente applicare ad ogni “illusione ottica” che la nostra personale prospettiva delle cose ci suggerisca.
Il movimento fisico, logistico, materiale di un viaggio è poca cosa in sé: prendo un aereo, alloggio in un hotel, scatto delle fotografie, compro un souvenir, mangio nel tal ristorante, guardo le vetrine; tutte operazioni inutili, in qualche caso addirittura avvilenti, quando non vengono rischiarate da un progetto che dia forma e significato alle novità che il viaggio comporta.
Visitare davvero un luogo significa andare al di là delle apparenze che vi sono addensate leggendolo, come suggeriva Leopardi, non solo coi nostri occhi ma anche con quella capacità immaginativa di suscitare fantasmi e di far giungere lo sguardo al di là della superficie delle cose”.
Lo sguardo deforma, soprattutto attraverso le emozioni.
Se arrivassimo in una città nuova sotto un diluvio e la prima esperienza fosse il furto della valigia, quella città – ai nostri occhi – sarebbe segnata per sempre. Il giorno dopo potrebbe anche sorgere uno splendido sole e magari incontreremo decine di persone oneste, ma il nostro sguardo potrebbe essere irrimediabilmente segnato.
E’ a partire da questa consapevolezza che si possono costruire percorsi di inclusione della diversità, di quella persona che – a prima vista – ci sembra ostile, ha dei valori differenti dai nostri, si ciba in modo diverso, porta al nostro sguardo una sfida che non sempre riusciamo a sostenere.
E’ interessante comprendere come il “pre – giudizio” può anche essere positivo: ovvero abbiamo deciso a priori che i membri di un certo gruppo (ad esempio i nostri compagni di partito, di gruppo religioso, di associazione di volontariato etc.) siano migliori degli altri. Ecco che il nostro sguardo diventa improvvisamente tollerante alle mancanze, alla maleducazione, alla deroga di regole che in teoria difendiamo come universali.
Il percorso di apprendimento, di crescita, consiste nel cercare altri sguardi, nell’immedesimarsi in altre storie, nel “viaggiare” – concretamente e simbolicamente – verso altri punti di vista.
Esercizio non facile, soprattutto quando si rompe il sottile filo della comunicazione.
Creare una mente multiculturale significa questo: allenarsi all’altro sguardo senza necessariamente diventare l’altro, ma comprendendo la sua storia, la sua esperienza e la sua identità.
Questo non vuol dire rinuncire allo spirito critico e accettare aprioristicamente tutto e tutti, ma significa però comprendere prima di giudicare.
Nel lavoro formativo alla diversità è questo quello che cerchiamo di fare: mettere a confronto lo sguardo maschile e femminile, ad esempio, l’approccio delle diverse generazioni, il punto di vista delle differenti culture. Un viaggio straordinario che mette in luce le somiglianze più che le differenze, i punti di incontro, più che quelli di scontro.