Diversity Lavoro e Management Respect4inclusion

Per una cultura del rispetto: condividere un “manifesto” in ogni azienda

Respect4inclusion

È facile pensare che il rispetto faccia parte di quelle categorie che oggi vanno sotto l’orribile etichetta di “buonismo”; a pensarci bene, una definizione paradossale come il bene possa essere troppo. Ma qui non intendiamo questo termine come qualcosa di invocato, il sacrificio che ciascuno deve fare per guadagnarsi il Paradiso.

Il rispetto che intendiamo diffondere e qualificare con le nostre aziende partner è quel clima organizzativo necessario in primo luogo a raggiungere risultati.

A nostro parere viene spesso sottovalutata la complessità che comporta l’agire organizzativo contemporaneo. Spazio e tempi liquefatti, obiettivi che cambiano velocemente, reazioni necessariamente rapide, il tutto non per il singolo, ma per un gruppo che deve operare in sinergia, in mutua collaborazione per task sempre più difficili.

Un quadro che non tende a semplificarsi, anzi, pare diventare sempre più articolato, lanciando sfide di innovazione che un tempo erano diluite in periodi molto più allungati. La comunicazione tra le persone, la capacità di non giudicare inutilmente, il controllo della naturale e fisiologica abilità umana di costruire più muri che collegamenti, diventano essenziali competenze per ogni lavoratore del futuro.

Certo, esiste anche – ed è importante – il versante del benessere organizzativo, dell’aspirazione di ciascuno a vivere in un clima sereno, dove l’inclusione sia una regola e non un’eccezione.

Il rispetto, nella nostra visione, diviene la chiave che abbiamo sperimentato per rispondere a questa duplice esigenza: da un lato organizzativa e quindi, di conseguenza, economica; dall’altro relazionale, di sensibilità individuale a non giudicare in modo improprio i colleghi con cui ci si trova ad operare.

I comportamenti orientati al rispetto, purtroppo, non sono spontanei ed immediati.

Accade esattamente l’opposto in quanto senza un’attenzione consapevole spesso si cade in comportamenti sociali diffusi che prendono di mira alcune tipologie di persone. Del resto basta pensare alla personale esperienza scolastica: in ogni classe ci sono alcune tipologie di alunni che vengono bersagliati per motivi ricorrenti: il bambino cicciottello, la ragazza secchiona, quello che non può permettersi le scarpe firmate e ha ai piedi delle imitazioni… Esempi che fanno parte della nostra vita e che ci hanno posti, di volta in volta, dalla parte degli emarginati o appartenenti al gruppo esclusivo dei potenti.

È compito degli educatori, se sono tali, contenere queste dinamiche, mettere in luce la sofferenza che ne deriva, costruire degli schemi mentali in cui si alternino le categorie di giudizio, attivare e premiare delle leadership positive. Lo schema non cambia nella cultura organizzativa: un gruppo dominante, dal punto di vista dei valori, definisce ciò che è accettabile o meno e quali siano le caratteristiche del prestigio.

Il primo passaggio nel costruire una cultura del rispetto è prendere atto della propria.

Ogni contesto sociale ha una nascita, un percorso di sviluppo e dei fondatori o delle persone che ne hanno dato un imprinting specifico al modo di agire e comunicare.

Nelle molteplici esperienze di Wise Growth abbiamo cercato di comprendere quanto il rispetto sia condiviso all’interno del gruppo: sono emersi esempi che abbiamo riclassificato su una scala che è possibile utilizzare per diagnosticare la propria situazione. Rileviamo situazioni di semplice non curanza o disattenzione, quelle piccole modalità quotidiane di non-ascolto dei propri colleghi o collaboratori. Ad esempio messaggi inviati fuori dall’orario di lavoro senza una reale necessità, chiamate effettuate senza chiedere la disponibilità dell’interlocutore ed esperienze analoghe.

Il passaggio successivo sono i giudizi non pertinenti al lavoro o alla prestazione. Fanno parte di questa categoria la condivisione di stereotipi che poi vengono agìti nel contesto: ad esempio, le linee organizzative di funzione sono spesso oggetto di reciproche antipatie; anche il centro e la periferia frequentemente costituiscono una linea di demarcazione in cui i primi vengono sospettati di privilegi – a volte reali – mentre le persone operanti nel territorio possono avere meno opportunità di visibilità e carriera.

Le differenze di genere o generazione sono un altro terreno di giudizi stereotipici che non tengono conto delle differenze individuali, giudizi che vengono ripetuti e condivisi: le neo-mamme sono meno motivate, i papà che prendono i permessi per i figli non hanno voglia di lavorare, i giovani sono orientati al piacere/divertimento e non alla produttività, i senior sono ormai incapaci di apprendere… Gli esempi sono molteplici e hanno la caratteristica di non essere rilevati immediatamente come dissonanti, tanta è la consuetudine al giudizio immediato e immotivato.

Purtroppo a volte si scivola rapidamente verso l’insulto, soprattutto quando il sessismo – spesso strisciante nelle conversazioni – prende una piega licenziosa. Un esempio che ci ha molto colpito è stato quello di un capo che dopo aver assunto una ragazza decisamente bella, nella riunione successiva del gruppo disse: “E ora, sotto quale scrivania la mettiamo la nuova arrivata?”. Un’esagerazione? No, è la quotidiana affezione alla battuta di spirito che nell’immediatezza non fa emergere il portato che contiene. Le battute sono una trappola frequente, perché capire il confine tra lo scherzo e scherno, tra l’ironia e la derisione, non è cosa facile.

Un altro terreno sul quale oggi si presta attenzione è il cosiddetto “body shaming”, ovvero la derisione per le caratteristiche del corpo. Ne sanno qualcosa le persone con disabilità evidente, i troppo alti, i bassi, i troppo grassi, i troppo magri. È facile esprimere un giudizio negativo sui difetti, o presunti tali, di chi non rientra esattamente nei canoni prescritti.

Questi ultimi sono gli ambiti in cui, facilmente, il commento diventa disprezzo e quindi offesa, tanto più devastante se rivolta all’identità della persona.

Riconoscere la propria cultura significa ascoltare le situazioni e fare una mappatura concreta di quelli che sono gli atteggiamenti permessi e quelli scoraggiati. Poi è necessario mettere in campo delle azioni d’intervento calibrate sulle specifiche esigenze.

Da qui nasce il manifesto che ogni organizzazione dovrebbe adottare, che mette in luce quali siano i comportamenti orientati al rispetto che ciascuno può mettere in atto.

Il manifesto, ovviamente, è un’occasione per formare ed informare, per condividere in modo attivo azioni ed emozioni spesso consuete, ma estremamente deflagranti.

La strategia è “scambiarsi le scarpe”, ovvero proporre situazioni in cui ciascuno provi ad immedesimarsi nei panni degli altri, a giocare diversi ruoli, a interpretare altri copioni del teatro della vita. Non serve una formazione “indottrinante” che muova dagli auspici di valore. Serve la concretezza di ragionare insieme per dare al termine rispetto le connotazioni operative necessarie a costruire un clima di lavoro sereno.

L’inclusione è un passaggio successivo e spontaneo: in un’organizzazione che ha costruito una cultura del rispetto, forse non è necessario altro perché ciascuno si senta a casa propria.

In questa breve clip abbiamo sintetizzato il nostro approccio, frutto di anni di lavoro sul tema. Buona visione!


Per saperne di più contattaci: info@wise-growth.it

Autore

Redazione Diversity-Management.it

Scrivi un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Iscriviti alla nostra newsletter

Inserendo la tua email acconsenti all’invio di newsletter sui nuovi articoli e sugli aggiornamenti relativi alle iniziative di Wise Growth