“Una donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé per scrivere romanzi.”
Nel 1928 Virginia Woolf pronunciava questa frase presso i due College femminili di Cambridge. La scrittrice affermava molto semplicemente che un lavoro di spessore richiede spazi specifici rispettati e le giuste opportunità economiche. Un’asserzione molto sintetica che conteneva il problema delle due carenze fondamentali che affliggevano la vita delle donne.
Ora che è passato quasi un secolo molte cose si sono mosse, ma i problemi di cui parlava la scrittrice sono ancora fermi lì. Certo, hanno cambiato volto ma resistono.
Qual è esattamente oggi lo spazio di una donna al lavoro?
Molto più ampio rispetto al 1928. Al contempo, quello spazio riservato in cui elaborare immagini e strategie complesse sembra mancare. Non si può ragionevolmente pensare al massimo delle proprie possibilità quando si viene quotidianamente giudicate su ogni aspetto della propria persona e della propria vita. Quando le donne hanno iniziato a lavorare ai piani alti è improbabile che immaginassero che la valutazione delle loro performance di alto livello sarebbe passata attraverso elementi che dovrebbero rimanere personali: estetica, eleganza, portamento, atteggiamenti, eros, abitudini alimentari, allineamento o meno con i comportamenti considerati tipici del sesso femminile.
Tutte queste cose, che dovrebbero essere e restare nella “stanza tutta per sé”, diventano un canale attraverso il quale le competenze vengono valutate e le performance giudicate. Ovviamente si vorrebbe obiettare che tutti i fattori elencati non c’entrano nulla col lavoro. Infatti il punto è esattamente questo. E molte donne vanno al lavoro prestando particolare attenzione a tutti i dettagli elencati. La maggior parte potrebbe non averci mai fatto caso con la dovuta attenzione: se è così si può sempre rimediare ora. Se prestiamo attenzione a tutto ciò è perché la società soppesa tutti questi elementi quando si tratta di donne!
Infatti, da un’analisi di circa 100 articoli apparsi lo scorso mese di aprile su quattro principali quotidiani italiani – Corriere della Sera, La Repubblica, Il Sole 24 ore e La Stampa – svolta in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano Bicocca (Mallica B., Stereotipi di genere nelle organizzazioni: Content analysis dei principali quotidiani italiani, Tesi di laurea discussa al Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione R. Massa, Università degli Studi di Milano Bicocca, AA 2016-2017), emerge che i principali giornali italiani, quando descrivono il lavoro di una donna, mettono in campo circa il 40% di dati relativi alle dimensioni sopracitate.
Se si pensa a una descrizione efficace di un lavoro questa percentuale è un’enorme bocciatura per testate di spicco: è molto difficile trovare il bandolo della matassa quando si è di fronte a così tanti dati superflui. Alla fine della lettura spesso non ci si fa un’idea concreta del valore della professionista, ma senza dubbio si saprà molto bene come veste e si presenta (i dati estetici occupano l’8% dei dati descrittivi) o quali uomini frequenta (10% dei casi). In maniera specifica questi uomini diventano spesso, nel racconto giornalistico, il vero punto di riferimento nella descrizione del lavoro al femminile.
La dedizione alla propria cerchia maschile sembra avvalorare le doti femminili, mentre performance importanti al femminile, slacciate da un aggancio a figure maschili, non vengono valorizzate come dovuto; cosa che avviene nel 28% dei casi.
Nella descrizione del lavoro femminile non mancano neppure i riferimenti alla dimensione domestica (presenti al 4%), alle abitudini alimentari, sportive, salutiste o meno (oltre il 10%). Internamente alla categoria dei dati riguardanti l’estetica troviamo persino incursioni riguardanti la sessualità della professionista in relazione al gusto maschile. Questa forte tendenza a descrizioni di elementi superflui, ma tipici della cultura patriarcale, rende inefficace oltre il 29% delle descrizioni di task e performance femminili.
L’unica stanza che le donne hanno è ancora un tracciato dello spazio maschile, e questo è molto ben visibile quando si osserva il linguaggio mediatico con freddezza clinica. La percezione femminile è però che, in un certo senso, questo rientri nel proprio ruolo femminile, e allora l’influsso mediatico lo si porta con sé, anzi dentro di sé, e quindi si affronta il lavoro spesso come se si andasse alla guerra. Imperterritamente fino al cedimento.
Organizzativamente questo rappresenta il disastro, definisce un cattivo clima organizzativo, porta alla fuoriuscita di eccellenti competenze al femminile.
Non si può lavorare senza porre dei limiti all’invasività del giudizio, ma il confine ancora non c’è, e ancora non è richiesto da quelle stesse donne che vengono raccontate professionalmente attraverso abiti, matrimoni, gravidanze o preferenze alimentari.
Nessuna può rasentare una perfezione fittizia quando concretamente deve dividersi fra casa e lavoro; nessuno può affrontare una giornata lavorativa pesando persino le proprie posture; nessuno può parlare a viso aperto di fronte a uomini che vivono male, aggressivamente e confusamente le direttive di un superiore donna. Non si tratta di dati inventati, ma di anni di ricerche.
La dimensione delle necessità femminili andrebbe trattata con cura dalle organizzazioni che dovrebbero portare allo sguardo di tutti queste difficoltà, e disporre positivamente le persone a cambiare non solo i comportamenti esteriori ma i punti di vista. Operare per diventare organizzazioni esemplari è un modo di rilanciare la partita rispetto a modelli fittizi. Mostrare praticità, dedizione e risultati nell’affrontare i problemi può cambiare l’influenza che simili modelli hanno sulle lavoratrici (e sui lavoratori!), e far sì che si porti in noi qualcosa di differente, di reale: una risposta a modelli valoriali che continuano a essere obsoleti e astratti. La risposta, in qualsiasi caso, non può essere l’abbandono del campo da parte delle donne: il denaro serve per costruire la vita e alimentare la professionalità. Il denaro serve alla realizzazione dei propri desideri e al potenziamento delle competenze, ed in senso sociale una donna senza lavoro è antieconomica per sé e per gli altri.