Bias & Stereotipi Diversity and Inclusion Gender Equality

Quel genere di ambiguità

Scritto da Mario Moisio

L’articolo integrale è apparso su Marea – numero 1 del marzo 2020 http://www.mareaonline.it/


Archiviato il 2019 è possibile tracciare un bilancio parziale ma significativo di alcuni spot commerciali che durante l’anno hanno affrontato le questioni di genere e che hanno cercato di essere innovativi e soprattutto portatori di valori e messaggi positivi. Entrambi hanno avuto un’ampia diffusione sulla rete e proprio grazie alla rete è possibile un’analisi del gran numero di commenti, addirittura polemiche, che tali spot hanno generato: non solo polarizzati tra apprezzamento e disapprovazione, ma arrivati a riproporre in modo evidente la domanda su quale sia o debba essere il ruolo della pubblicità, fino a considerazioni sui poteri piú o meno occulti, dalla “cospirazione gender” all’estremismo femminista o del politicamente corretto.

 

Nel corso della tavola rotonda organizzata il 7 marzo 2019 dal Comune di Torino «DeGENERiamo? Scenari sulla Cultura di Genere in Europa», un appuntamento di alto livello per discutere di inclusione, cultura, stereotipi di genere, lavoro, conciliazione e immigrazione femminile, è stato di particolare interesse il prezioso e accurato intervento della Dottoressa Federica Turco, semiologa e collaboratrice del CIRSDE (uno dei primi istituti interdisciplinari per gli studi di genere), focalizzato proprio sull’analisi di tali iniziative pubblicitarie e soprattutto sulle relative ricadute. Nello specifico, si tratta degli spot dei marchi Gilette e Nike, molto noti in tutto il mondo.

Gilette appartiene a una nota multinazionale di beni di consumo che non è nuova al riposizionamento strategico di alcune linee di prodotto (per esempio, il sapone Dove è stato un modello di attenzione verso donne e mamme in particolare). Lo spot oggetto della prima analisi si distingue per una vigorosa ed esplicita presa di posizione contro razzismo e violenza maschilista. La linea di prodotti da barba ha per anni basato la promozione sullo slogan «il meglio di un uomo» costruito sull’immagine un po’ stereotipata di “uomo vero”. Anche se lontana dai livelli dell’«uomo che non deve chiedere mai» (arrivata con vari aggiornamenti di immagine fino al 2012 con uno spot che era divenuto un miniclip erotico) di una nota linea di profumi, si tratta di un’espressione che ha fatto storia e che è entrata nella lingua parlata. L’azione pubblicitaria di Gillette si svolge attraverso un video che mostra in pratica un catalogo di comportamenti maschili moralmente riprovevoli quali pestaggi, palpazioni, risate sessiste, maschilismo aziendale, paternalismo, bullismo, eccetera, stigmatizzati alla fine con azioni correttive e conclusi con il messaggio

«The best a man can get / it’s only by challenging ourselves to do more that we can get closer to our best / we are taking action at thebestmencanbe.org»

Il messaggio è chiaro, cosí come l’auspicio di un cambiamento attraverso una serie di riflessioni sui comportamenti mostrati.
Quel genere di ambiguità

Nasce subito la prima osservazione: una semplice regola della pubblicità è di mostrare comportamenti moralmente giusti e non quelli sbagliati. Lo spot di Gilette rompe questa consuetudine, mostrando prima i negativi poi i positivi. Il significato è chiaro, ma si tratta appunto di uno spot (per quanto la sua lunghezza sia decisamente inconsueta, e anche questa è una caratteristica importante), non di un documentario, un film o un tutorial, anche se forse si avvicina al confine con quest’ultimo.

La questione di interesse per gli studi di genere non deve essere il suo successo commerciale (ciò è oggetto del marketing), ma la qualità dei commenti generati, in particolare considerando che è stato fra le prime trenta visualizzazioni mondiali di YouTube, ottenendone piú di trenta milioni. A tal proposito la tendenza è stata evidente fin dall’inizio: un terzo circa di apprezzamenti e due terzi di disapprovazioni, quindi una maggioranza significativa rispetto a coloro che hanno gradito lo spot e ne condividono il significato. Una bocciatura netta, che è arrivata addirittura a proporre azioni di boicottaggio. Non necessariamente significa che tale maggioranza approvi comportamenti violenti e brutali come quelli che il video stigmatizza e invita a superare, ma che non percepisce un valore esclusivamente positivo del messaggio, oppure ne interpreta il significato soprattutto come una serie di atti di accusa non meritati.

Tuttavia, questo potrebbe essere un classico esempio della «questione del dito e della luna»: negare la propria “virilità tossica” è legittimo, negarla in assoluto è irrealistico, perdere l’opportunità di una riflessione è un’occasione sprecata.

Emerge dalla rete anche una tendenza particolarmente significativa, ossia inquadrare lo spot nell’universo complottista che inneggia alla famosa “teoria del gender” (qualunque cosa essa sia). Il marchio Gilette si è spinto oltre alcuni mesi dopo, con un altro spot dove un padre insegna al figlio transgender FtoM alcuni consigli per la rasatura, che si intuisce avvenire per la prima volta; uno spot tenero e riflessivo, che ha voluto rompere un altro tabú, e che ha continuato a generare discussioni.

È della nota società di abbigliamento sportivo Nike un recente spot basato sull’empowerment delle donne nello sport e mostra donne impegnate con energia in varie discipline: in particolare le protagoniste piangono, si commuovono, si arrabbiano, urlano, contestano, spaccano racchette al suolo, combattono in discipline sportive tipicamente maschili come il pugilato; inoltre si riconosce una donna nel ruolo di allenatrice di una squadra basket ad alto livello.

Il testo recita:

«Se mostriamo emozioni, ci chiamano drammatiche / se vogliamo giocare contro gli uomini, siamo matte / e se sognamo pari opportunità, illuse / quando pretendiamo qualcosa, siamo sconvolte / quando siamo troppo brave, c’è qualcosa di sbagliato in noi / e se ci arrabbiamo, siamo isteriche, irrazionali / o semplicemente pazze / ma una donna che corre una maratona era una pazza [con immagini di repertorio] / una donna nel pugilato era una pazza / una donna schiacciare a canestro? Pazza / allenare una squadra di NBA? Pazza / una donna gareggiare con l’hijab? / cambiare il proprio sport / atterrare dopo un double cork a 180° [una figura particolarmente difficile e rischiosa dello snowboard]/ o vincere 23 tornei del Grande Slam, avere un bambino e tornare a vincere ancora? / Pazza, pazza, pazza, pazza e pazza / Allora se vogliono chiamarti «pazza», bene / fai vedere cosa può fare una pazza»

Dopo il parlato, il messaggio che appare alla fine è «It’s only crazy until you do it. Just do it» («È una pazzia soltanto finché non lo fate. Fatelo»).

 

Il messaggio che emerge dalle sequenze dello spot è chiaramente positivo. La questione è il senso di implicito, di sottinteso, di sedimentazione delle aspettative del maschile e – di riflesso – del femminile stereotipate, in una sequenza di eccezioni che presuppongono, se non regole, almeno la significatività statistica: arrabbiarsi o gridare è “normalmente” maschile, per la donna è un’eccezione; idem per combattere, o dirigere una squadra. Di riflesso, quasi specularmente al messaggio positivo ufficiale, se ne percepisce un altro, pesante e significativo: “vincere” è normalmente maschile, per una donna è un’eccezione; intraprendere imprese dure o difficili idem.

Qui si apre il vulnus: l’ammissione di una gerarchia e di un’opposizione valoriale: gli uomini sono in grado di fare lavori pesanti e difficili, anche nello sport, le donne no, non ci riescono, o sono giudicate pazze. Reagisci a questa regola o consuetudine, ma la consuetudine esiste… Il messaggio finale vuole essere positivo e liberatorio («fatelo»), ma il percorso su cui si costruisce tale messaggio sembra sviscerare gli stereotipi di genere e, in un certo senso, forse, rivitalizzarli. Dieci milioni e mezzo di visualizzazioni con una prevalenza dei like, ma che cosa supporta davvero questi like? In quanti casi si è aperta una riflessione sulla profondità del sottotesto dello spot? La Dottoressa Federica Turco nell’occasione della tavola rotonda di Torino ha proposto un’interessante riflessione sul fatto che il messaggio del cosiddetto empowerment è sicuramente positivo, ma per la persistenza degli stereotipi nascosti, lo spot della Nike è in certo senso critico, addirittura in misura maggiore di quello della Gilette, anche se quest’ultimo è stato immediatamente male interpretato dalla rete.

Un’ulteriore osservazione sulla comparazione tra i due spot è relativa all’immagine delle figure umane e dei modelli di riferimento: nel primo, indipendentemente dal presentare solo donne, si tratta di livelli agonistici professionisti ed elevati, quindi di eccellenze: ammirevoli sí ma di non facile emulazione. Sono molto più semplici, attuabili e “reali” quelli del secondo.

La persistenza degli stereotipi nella pubblicità è un campo, se non minato, almeno scivoloso.

Rimane fondamentale in proposito lo studio inserito nel volume Linguaggio e Genere di Silvia Luraghi e Anna Olita, che analizza in modo compiuto gli stereotipi di genere nelle pubblicità radiofoniche nell’ambito di un’ampia e accurata analisi del linguaggio di genere; a partire da tale lavoro è possibile implementare una gran serie di osservazioni sulle pubblicità in video, dalle origini ai giorni nostri, dove le immagini, comprese quelle dei social, producibili facilmente e disponibili senza troppe barriere, moltiplicano le possibilità di comunicazione.

Espliciti o subliminali, i messaggi della pubblicità sono importanti in quanto potenzialmente raggiungono tutta la popolazione (i film e i libri no, perché visioni e letture sono frutto delle scelte personali). In tale contesto gli stereotipi sono funzionali alla pubblicità stessa, pertanto sono molto utili a rappresentare certe culture di massa e anche a essere oggetto degli studi di semiologia. In particolare essi intercettano le tendenze delle concezioni del corpo, non soltanto per i contenuti palesemente sessuali: un esempio è proprio la loro tendenza a essere di nutrimento alle visioni complottistiche contemporanee, che trovano nella “teoria gender” il vertice per eccellenza.

Lo scopo di ogni azione pubblicitaria è quello di favorire una promozione o di supportare le vendite, perché nessuna azienda o istituzione veicola intenzionalmente messaggi per danneggiare la propria immagine; in alcuni casi può esserci un’intenzione piú elevata – pedagogica o morale – che deve essere però ben valutata, nella forma e nella sostanza. In sintesi, nei casi discussi sono evidenti le buone intenzioni di proporre passi in avanti, ma tali buone intenzioni sono state delle inaspettate fonti di riflessione che hanno gettato una nuova luce su una strada dimostratasi piú lunga e complessa, svelandone quanto possano essere inattesi, e a volte pesanti, i pedaggi.

Autore

Mario Moisio

Mario Moisio è laureato in ingegneria chimica, ha lavorato in grandi multinazionali dove si è anche occupato di diversity. Ha pubblicato recentemente Le Nuove Famiglie – Diritti, doveri, laicità, modernità per Prospettiva Editrice; collabora con la rivista femminista Marea.

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