Le parole, si dice spesso, sono importanti. Costruiscono “significati”, condividono un determinato modo di vedere il mondo, offrono dei simboli a cui riferirsi.
É partendo da questa riflessione che il temine “diversità” dovrebbe essere rivisto nella cultura dell’inclusione. La prima domanda che sorge sempre spontanea è: diverso da chi? Seguita da: qual è il contrario di diverso, ovvero l’elemento da cui ci si differenzia? Ci sono persone “uguali”?
Eppure, nella divulgazione dei progetti di “diversity, equity & inclusion”, spesso questa riflessione non viene posta con forza. Inoltre, se si osserva l’evoluzione di questa tematica nel contesto aziendale, si assiste ad una “segmentazione” della cosiddetta diversità: infatti vengono sviluppati progetti specifici, generalmente a partire dal genere femminile (giustamente connotato come “escluso”), per poi via via diramarsi verso altri segmenti ritenuti critici: le generazioni, la disabilità, le culture etc.
É necessario cambiare questo approccio per due ordini di motivi.
Il primo è che mettendo al centro le persone, come è necessario per costruire una cultura inclusiva, ci si rivolge all’interezza della loro identità, che non è fatta di angoli acuti e di linee rette, ma di sfumature: di aspetti visibili, come il colore della pelle, ma anche di caratteristiche invisibili come una malattia, di storie personali, di valori, di retaggi della propria esistenza e di scelte individuali, e così via.
Spesso questo “appiattimento” ad un’unica dimensione, sia essa del genere o della generazione, provoca un disagio a chi è proposto. “Non voglio essere chiamata ad un corso come donna, ma come professionista”, spesso è la critica che sorge quando si apre un corso di “Empowerment femminile”, critica che poi si mitiga quando si comprende che alcune competenze al femminile sono specifiche e non vogliono essere sostitutive di un approccio complessivo. Ma la reazione è comprensibile e si riferisce appunto all’imbarazzo di vedersi ingabbiate in un unico aspetto della propria identità plurale.
É lo stesso malessere che si prova quando all’estero si è etichettati come “italiani” con gli aggettivi conseguenti di amanti della pizza, cantanti con il mandolino e potenzialmente mafiosi…
Le “categorie” in cui inseriamo le persone hanno quindi una potenzialità di costruzione di uno stereotipo ancora più ampio da quello da cui si intende rifuggire con questi progetti; possono addirittura creare uno “stigma”, ovvero un carattere distintivo che spesso diventa – nella dimensione sociale – un elemento quasi di condanna.
Sostituire allora il termine “diversità” con quello più ampio di “pluralità” non è una questione irrisoria, ma la trasmissione di un significato immediato quello di comprendere l’ampia interezza di ogni persona[1].
Il secondo è che si dà per scontato che quelle elencate – genere, età, disabilità, orientamento sessuale e così via – siano le uniche “linee di faglia” esistenti nell’organizzazione, dove per linee di faglia si intendono quei confini che costituiscono un rischio di potenziale conflitto. Quello che qui si intende sottolineare è che ogni azienda, così come ogni persona, è “diversa” e non è detto che rappresenti in piccolo la società più ampia dove effettivamente le categoria utilizzate sono spesso emarginate.
É allora necessaria una ricognizione, il più possibile scevra da preconcetti, per capire quali siano le caratteristiche della realtà in cui si vive, quali i rischi e le aree effettivamente critiche, interrogando le persone, attivando “sensori” che possano monitorare l’evoluzione di una cultura organizzativa. Per fare un esempio, in un’azienda farmaceutica qualche tempo fa si è sviluppato un lavoro di analisi per identificare quali fossero i progetti prioritari ed emerse un dato a cui nessuno aveva pensato precedentemente: le persone che avevano un vissuto di “esclusione” provenivano da un’azienda che era recentemente stata inglobata e che non riuscivano a inserirsi in un contesto radicalmente differente da quello precedente.
Per ovviare a queste possibili trappole (in cui spesso si rischia di cadere in perfetta buona fede) una proposta possibile è quella di costruire una cultura del rispetto,[2] sviluppando del percorsi che pongano al centro dell’attenzione le persone nella loro interezza da un lato, ma anche la comprensione della cultura prevalente dall’altro.
Per raggiungere un risultato duraturo e concreto, questo tipo di iniziative devono avere due caratteristiche: la profondità e la continuità.
Profondità significa sviluppare attività formative e di comunicazione che non si limitino agli aspetti “emotivi”, ma aggiungano una comprensione teorica e culturale di queste dinamiche. Le emozioni sono sicuramente un veicolo importante per “mettersi nei panni degli altri”, sviluppare empatia e capire le conseguenze dei processi di esclusione, ma spesso non sono sufficienti per attivare un cambiamento. Il presupposto è che escludere, nelle dinamiche sociali, è estremamente facile, quasi inconsapevole. Prendere coscienza di questa facilità e dei modi in cui avviene è il primo passo per riflettere e, magari, cambiare.
La continuità è necessaria in ogni cambiamento culturale, perché di questo si tratta. Ciò non significa una ripetizione di eventi, ma la costruzione di un percorso che individui diversi attori, che coinvolga via via tutte le posizioni organizzative, che sviluppi interventi di “contaminazione positiva” con un focus concreto sui comportamenti individuali.
Ora che la tematica “diversity, equity & inclusion” è diventata così importante nell’agenda di moltissime realtà organizzative è necessario un salto di qualità, che faccia tesoro degli errori del passato, per costruire progetti più efficaci ed incisivi.
[1] Per un approfondimento M.C. Bombelli, Management Plurale, Etas, 2010
[2] M.C. Bombelli, E. Serrelli, La cultura del rispetto. Oltre l’inclusione, Guerini Next, 2021