Il libro di Camilla Gaiaschi – Doppio standard: donne e carriere scientifiche nell’Italia contemporanea, edito da Carocci, costituisce un percorso di ricerca originale e approfondito.
Iniziamo dal titolo, che l’autrice chiarisce in introduzione:
«Per doppio standard si intende il processo per cui si applicano criteri di valutazione diversi nei confronti di persone che differiscono per qualche aspetto della loro identità, da una certa “normalità”».
Nel testo si affrontano le tematiche di genere, mettendo in luce quanto le valutazioni siano inficiate dall’idea che si ha del femminile, degli stereotipi che si condividono.
Ma il tema vale per molti segmenti di persone ad esempio chi ha la pelle nera in un universo di bianchi, chi ha una disabilità o un certo tipo di background.
Insomma si tratta delle “deformazioni cognitive”, delle convinzioni profonde e condivise in un gruppo sociale che fanno si che, in perfetta buonafede, si utilizzino dei criteri differenti di valutazione, doppi – appunto – ma anche tripli o quadrupli…
Un tema ben noto a chi si occupa di inclusione, ma che spesso si limita alla constatazione, quasi ad una rassegnazione di fenomeno ineluttabile.
Sviluppare una comprensione attiva dei fenomeni
Chi intraprende la strada del cambiamento cerca, in primo luogo, di sviluppare una comprensione attiva dei fenomeni, unico elemento per agire in profondità.
Questa è la strada di Gaiaschi: non fermarsi alla mera denuncia, seppur importante, ma comprendere cosa soggiace ad un fenomeno molto diffuso.
In primo luogo chiediamo le motivazioni che l’hanno spinta ad occuparsi di questo tema:
«Da tempo la mia attenzione di ricercatrice è stata attratta dalle politiche di genere, quindi un livello ampio, di scelte sociali strategiche. Mi sono accorta che era necessario ampliare quest’ottica includendo i contesti organizzativi, come elemento centrale per comprendere le contraddizioni delle strategie di equità, oltre che gli aspetti individuali, delle scelte dei singoli.»
Esiste una diffusa diagnosi empirica sul cambiamento positivo in un’ottica di genere: è solo questione di tempo.
In fondo è da relativamente poco che ci si occupa di pari opportunità, si tratta di avere fiducia nella capacità di colmare questo gap dalle tendenze in essere, sia negli studi che nell’occupazione femminile.
L’autrice dimostra che non è così, che senza un intervento consapevole questa supposta linearità “progressiva” non esiste e che i prezzi che pagano le donne possono essere anche maggiori in dipendenza dal contesto economico generale.
Comprendere le dinamiche dell’esclusione
La comprensione delle dinamiche che riguardano il fenomeno dell’esclusione femminile è quindi fondamentale.
I temi sono noti, ma vengono nel testo approfonditi con sistematicità sia a livello micro, individuale, meso, ovvero la dimensione organizzativa che a livello macro, quello sociale e istituzionale.
A livello individuale la nota “propensione” femminile a percorsi umanistico-psicologici è un dato attitudinale o conforme ad una visione radicata della missione femminile?
Un tema che può essere affrontato anche a livello meso e macro, proprio sostenendo, come si fa da tempo, le donne in percorsi più tradizionalmente maschili.
Queste scelte individuali, confortate da quelle organizzative, sanciscono l’altrettanto nota segregazione orizzontale, aree di lavoro completamente occupate dal maschile o dal femminile. Se il faticoso ingresso del femminile ad ingegneria, ad esempio, si attesta al 25%, l’ingresso maschile nelle professioni di cura, soprattutto nelle scuole dell’infanzia, non è praticamente iniziato.
Un elemento centrale, quello della maternità, è anch’esso ricco di sfumature: nel caso di professioniste e di famiglie a lavoro condiviso questo elemento non sembra essere un fattore determinante di discriminazione.
I paradossi della carriera
Emergono in questa disamina, quelli che l’autrice, definisce paradossi: nei contesti dove esistono meno tutele le donne riescono più facilmente ad emergere in termini di carriera e quindi ad arrivare a posizioni apicali.
Ma il prezzo che si paga è molto alto: rinuncia alla procreazione o meno figli di quelli desiderati, poco tempo di astensione per la maternità, contratti flessibili e poche garanzie. Sono elementi che emergono sia nei confronti tra Paesi che tra contesti pubblici e privati, ad esempio nella sanità.
Un quadro complesso, insomma, che necessita di interventi a vari livelli per essere affrontato.
Conclude il testo una disamina qualitativa, attraverso interviste, di alcuni ambiti scientifici.
Una scelta metodologica interessante e utile, che ci aiuta a capire come sia necessario comprendere dinamiche specifiche e culture particolari.
La dimensione del genere si radica, in questi casi, nelle più vaste problematiche dell’università italiana, con il correlato, anch’esso ben noto, di particolarismi, baronie e valutazioni stentate.
L’attenzione alle dinamiche organizzative
Quali passi sono quindi necessari per arrivare, anche se non in tempi brevi, ad una effettiva parità?
«Non è facile rispondere a questa domanda: un sistema è appunto tale per le molte correlazioni tra le parti. Centrale è sicuramente l’aspetto organizzativo che ha patito alcune mode nel tempo. In un primo momento l’attenzione centrale alla “conciliazione” che in seguito si è trasferita al tema dei “bias”, che consente alle aziende di scaricare ogni responsabilità a livello individuale. È necessario invece comprendere le intime dinamiche organizzative per supportare un reale cambiamento.»
Un tema interessante, ad esempio è il lavoro “occulto” del femminile.
Questo è apparso con evidenza nella parte di indagine qualitativa.
Qualche esempio: le bioscienziate sono anche quelle che si occupano della pulizia del laboratorio, ovviamente da un punto di vista della sanificazione necessaria agli esperimenti, dedicando un tempo accessorio a quello della pura prestazione.
In università l’attenzione agli studenti, la dimensione di accoglienza, il seguire con maggiore puntualità le tesi è anch’esso un tratto femminile, oscurato però da altri criteri di valutazione apparentemente oggettivi.
Lo stesso emerge nei gruppi di ricerca dove sono le donne spesso a farsi carico della dimensione “amministrativa” nel senso del rapporto con i donors, nella compilazione di formulari spesso molto onerosi, nel mantenimento dei piani di lavoro e così via.
Un tema ancora aperto
Il tema del “doppio standard” rimane aperto, perché la formulazione dei criteri di valutazione è centrale in qualsiasi contesto organizzato.
E se la consapevolezza di questo fenomeno è certamente cresciuta, non altrettanto si è fatto nella formulazione di strumenti e di protocolli per evitare le “normali” deformazioni cognitive che ciascuno reca con sé.
Un territorio ancora da esplorare per garantire alle persone un riscontro reale e concreto delle proprie competenze, senza dover lottare ogni giorno contro “interpretazioni” sociali dovute all’attribuzione ad una categoria.
Estendere la riflessione dal femminile alle numerose “categorie” potenzialmente discriminate è compito sia di chi si occupa professionalmente di inclusione, ma anche di ciascuno nella propria attività professionale e sociale.