Alle donne non interessano posizioni di leadership: la loro motivazione al lavoro dipende da altri fattori. Ne siamo davvero sicuri? Non è che stiamo ricadendo nel solito stereotipo così ben rappresentato dal cosiddetto ‘policentrismo esistenziale’ che vede la donna come modello carente delle caratteristiche maschili e la descrive come custode delle relazioni (care giver) in contrapposizione all’uomo (good provider) che è invece investito di un ruolo più strumentale e pubblico?
Proviamo ad analizzare cosa è emerso a questo proposito dalla ricerca “Motivazione e diversità” che ho condotto con Alessandra Lazazzara e Barbara Quacquarelli lo scorso anno (è possibile trovare il dettaglio dei risultati in questo link).
Una parte cospicua della ricerca ha voluto indagare la motivazione alla leadership, vale a dire le motivazioni che portano le persone ad assumere ruoli e responsabilità di leader.
Dalle analisi dei risultati emerge che tra i partecipanti allo studio la motivazione predominante è quella sociale-normativa che riguarda l’essere motivati ad assumere ruoli di leadership dal senso di dovere e responsabilità. Emerge poi come particolarmente diffusa anche la motivazione alla leadership di tipo affettivo che riguarda il piacere intrinseco legato all’essere leader che assume. Infine, la motivazione alla leadership meno diffusa è quella non calcolativa, cioè non essere motivati dai potenziali benefit associati al ruolo di leader ma, piuttosto, dal compito in sé.
Se analizziamo le risposte per genere emergono elementi molto interessanti.
Innanzitutto le motivazioni che portano donne e uomini ad assumere un ruolo di leader sono molto diverse. Agli uomini ”piace” essere leader e sentono una pressione sociale ad assumere tale ruolo in maniera significativamente maggiore delle donne che, invece, sono meno interessate degli uomini ai potenziali benefit personali che deriverebbero da tale ruolo.
Non solo: alla domanda “Ti proporresti per una posizione da leader?” le donne rispondono in modo affermativo il 4% in più degli uomini. Non sembra dunque vero che alle donne non piaccia il ruolo di guida. Non è finita: le condizioni affinché questo accada cambiano profondamente per uomini e donne.
Le donne, oltre a valutare l’aspetto economico, sono più propense a candidarsi come leader se il progetto è innovativo, piuttosto che se si tratta di un compito standardizzato o di routine proprio perché più interessate al compito in sé. Tuttavia, a questo dato si aggiunge anche per le donne il bisogno di ricevere dall’azienda l’opportunità di seguire un corso di formazione sulla leadership e avere anche dei mentori formali o formali a cui ispirarsi.
Ma cosa si nasconde dietro questa evidenza?
Da un lato, sicuramente una profonda onestà intellettuale. Le donne esprimono un forte senso di responsabilità e chiedono quindi un supporto all’azienda nello sviluppo delle proprie competenze di leadership.
Dall’altro lato emerge anche una sorta di insicurezza che rimanda al tema dell’autovalutazione: sappiamo bene che mediamente le donne sono meno oggettive degli uomini nel valutarsi e sono spesso giudici impietose di se stesse.
Le radici di questa difficoltà vanno rintracciate in primis nella storia delle donne e nella rappresentazione del femminile nella cultura sociale. Un’identità di genere indipendente è frutto di un percorso relativamente recente: per molto tempo infatti, il riconoscimento sociale nei confronti del femminile ha riguardato l’attività di cura e questo ha fatto sedimentare nelle donne un’idea di autostima di sé fortemente dipendente dal giudizio e dallo sguardo degli altri.
Ci si valuta positivamente solo se in grado di anteporre ai propri bisogni quelli degli altri. Riconoscere il proprio bisogno, autodeterminandosi, può far cadere le donne in un sentimento di colpa dettato dalla paura di rompere i legami, di non piacere o essere amate, o di non essere all’altezza. Paure che emergono facilmente nei corsi di empowerment femminili.
Condizionata dal dover essere ‘in relazione a’, la donna generalmente non è obiettiva sui suoi livelli di performance: quello che fa non è mai abbastanza.
Scattano così le due temute trappole: la prima, quella della inadeguatezza con l’inevitabile sentimento di ‘vergogna’; la seconda, quella degli ‘standard severi’ con l’inevitabile sensazione che niente vada mai bene abbastanza. Da qui la richiesta di un aiuto, di un supporto.
Ne consegue che se viene proposto alle donne di assumere una posizione di leadership, un fattore agevolante per loro nell’accettare la sfida è quello di poter essere supportate dall’azienda in questo percorso.
Richiesta assolutamente legittima, che va ascoltata e gestita anche perché il riconoscere la propria imperfezione e la propria debolezza senza cadere nel delirio di onnipotenza o arroganza tipico di chi si ama troppo, è probabilmente il primo fondamentale passaggio per la costruzione di un ruolo di leadership.
Se non fosse che nel frattempo la stessa proposta potrebbe essere stata fatta ad un collega uomo. Collega che, in un batter di ciglia, in modo molto pragmatico, magari ha già accettato…