Lavoro e Management Maternità e genitorialità

A proposito di Fertility day: ancora tanti stereotipi sulle donne in attesa di un bambino

Nuovi padri, nuove madri
Scritto da Adele Mapelli

È proprio di queste ore l’acceso dibattito innescato dalla campagna di sensibilizzazione promossa dal Ministero della Salute che qualche giorno fa ha lanciato l’idea di celebrare nella giornata del 22 settembre 2016 il “Fertility day“, la prima Giornata nazionale annuale dedicata al tema della fertilità.
Non è mia intenzione entrare nel merito dell’iniziativa: mi preme qui offrire spunti di riflessione su un aspetto a mio avviso centrale nella discussione, vale a dire le difficoltà legate al binomio maternità e lavoro e, più in particolare, gli svantaggi che le donne in attesa di un bambino sperimentano rispetto alle donne non in stato di gravidanza. Se ne parla molto ma spesso in modo poco approfondito: proviamo quindi a vedere cosa ci dicono le ricerche empiriche.

Ecco le principali evidenze: le donne incinte sono mediamente più svantaggiate nell’ingresso nel mondo del lavoro, sono oggetto di più stereotipi negativi nella ricerca di un posto di lavoro, hanno meno probabilità di essere assunte, sono più discriminate nelle promozioni e nelle valutazioni delle performance lavorative.

Ad esempio, lo studio condotto da Halpert, Midge e Hickman (1993) ha indagato l’effetto della gravidanza di una dipendente sulla sua valutazione delle prestazioni. Ad un gruppo di valutatori sono stati mostrati due video nei quali è rappresentata una donna che sta svolgendo un compito: i due video sono identici in tutto, ad eccezione di un elemento (la variabile). In un video infatti, la donna è visibilmente incinta. Nonostante le azioni compiute dalla donna incinta siano identiche a quelle compiute dalla donna non incinta nell’altro video, la donna incinta viene giudicata come meno adatta al lavoro e la sua performance lavorativa viene valutata come più scarsa.

Altri studi hanno rilevato che, quando la maternità è presente, essa condiziona negativamente la valutazione del curriculum vitae per l’assegnazione di un lavoro. Chiedendo di valutare dei curricula identici in tutto, ad eccezione che per lo stato parentale (la maternità/paternità rappresenta la variabile che è assente in alcuni casi e presente in altri), risulta che la stessa donna viene considerata meno competente e dunque meritevole di un salario più basso quando è madre rispetto a quando non ha figli (Cuddy, Fiske, Glick, 2004; Correll, Benard, Paik, 2007).

E anche quando le lavoratrici madri dimostrano di essere competenti e impegnate possono comunque essere discriminate: la donna che spezza la credenza secondo cui le madri sono meno competenti e attaccate al lavoro, cade immediatamente in una nuova credenza. Il fatto di essere madre ma di dedicarsi con tanto impegno sia mentale che temporale al lavoro, la fa catalogare come una persona fredda, falsa, egoista, cattiva e antipatica. Così le lavoratrici madri si trovano in una doppia trappola: o sono considerate incompetenti oppure, se viene riconosciuta loro la competenza, sono comunque considerate caratterialmente inadeguate. Insomma, sembra proprio non esserci una via di fuga.

Cosa fare dunque affinchè la maternità non venga vista dalle aziende come un problema insormontabile da gestire?

Come ampiamente trattato nel libro che ho curato con Laura Girelli “Genitori al lavoro. L’arte di integrare figli, lavoro, vita”, le forme di flessibilità spazio-temporale ed i servizi di welfare possono dare risposte concrete ai bisogni di work and life balance dei lavoratori, ma non sono strumenti risolutivi. Il vero snodo sta nella creazione di un ambiente lavorativo realmente inclusivo: un ambiente è inclusivo se non discrimina chi decide di usufruire di forme di lavoro part time, o chi decide di non fermarsi in ufficio fino a tardi, tutte le sere, o chi decide di diventare genitore. E questo deve valere sia per i lavoratori, sia per le lavoratrici.

Il tema è più latente e riguarda il ruolo giocato dagli stereotipi che traggono origine da norme sociali difficili da sradicare. Più in particolare gli stereotipi possono riguardare sia presunti tratti tipici della donna in attesa di un bimbo, sia presunti comportamenti che la lavoratrice adotterà dopo il parto.

Dunque è la norma sociale collegata alla maternità, e non la maternità in sé, ad innescare dinamiche discriminatorie e auto-discriminatorie.

Ad esempio, pensare che una donna in gravidanza sia instabile emotivamente, induce a considerarla come un fattore di stress e di disturbo. Così come pensare che la donna dopo aver avuto un bambino cambierà i suoi comportamenti al lavoro, indurrà a considerarla inaffidabile e meno motivata col rischio di penalizzarla nelle fasi di selezione, valutazione, promozione e retribuzione.

Ma nonostante il peso ricoperto dagli stereotipi nel favorire l’abbandono del lavoro da parte delle lavoratrici madri o nel rendere più difficoltosa la loro inclusione in azienda, esso risulta un tema poco esplorato non solo azienda ma anche a livello politico, come sembra emergere dal Piano Nazionale della Fertilità.

Un vero spreco, anche perché gli studi ci dicono che la formazione che supporta le persone nella presa di coscienza dei propri stereotipi può essere un utile strumento correttivo ed avere un effetto positivo nel modificare comportamenti e atteggiamenti sia nella direzione della creazione di interazioni personali più efficaci, sia della riduzione degli atteggiamenti di discriminazione.

Autore

Adele Mapelli

Dopo un Master in SDA Bocconi School of Management, è stata per quindici anni Professor di SDA Bocconi e coordinatrice dell’Osservatorio Diversity Management dal 2008 al 2013. Oggi si occupa di consulenza HR per la gestione e lo sviluppo delle risorse umane e di formazione sui temi del comportamento organizzativo e della diversity&inclusion. È autrice di numerosi articoli e pubblicazioni sui temi legati alla gestione e alla valorizzazione della diversità nelle organizzazioni: con L. Girelli ha scritto "Genitori al lavoro. L'arte di integrare figli, lavoro, vita", Guerini, 2016; con S. Cuomo ha pubblicato "Engagement e carriera: il peso dell’età", Egea, 2014; "La flessibilità paga. Perché misurare i risultati e non il tempo", Egea, 2012; "Un posto in CDA. Costruire valore attraverso la diversità di genere", Egea, 2012; "Maternità, quanto ci costi? Una analisi estensiva nelle imprese italiane", Guerini, 2009; "Diversity Management. Gestire e valorizzare le differenze individuali nell’organizzazione che cambia", Guerini, 2007.

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