Molto spesso quando affronto la tematica della flessibilità (o “smart working”) collegata ai temi dell’inclusione mi capita di trovarmi di fronte a manager che “alzano le barricate” dicendomi che se non controllano i loro collaboratori non c’è verso che lavorino. Oppure che se una persona esce prima dell’orario “etico” (cioè dopo l’orario di lavoro) allora non si impegna abbastanza.
Ho sempre pensato fosse un derivato culturale molto italiano quando poi ho notato che in realtà le resistenze al “remote working” sono forse legate ad un meccanismo molto più cognitivo.
Molto probabilmente si tratta dell’effetto combinato di due bias cognitivi, entrambi citati nel libro di D. Kahneman “Pensieri lenti e veloci”.
Il primo è detto “legge dei piccoli numeri”: l’essere umano ha la tendenza ad applicare le leggi di probabilità (leggi dei grandi numeri) anche ai piccoli numeri e quindi sovrastima l’esistenza di un determinato fenomeno sulla base di un numero ridotto di osservazioni; il secondo bias è quello dell’ancoraggio o “priming”: gli individui, nel ricercare delle leggi generali, tendono a confermare (sulla scorta della legge dei piccoli numeri) idee personali o culturali predominanti.
Partendo da questi meccanismi allora:
- Sulla base delle mie osservazioni (su piccoli numeri, avendo io un numero ristretto di persone da gestire) i collaboratori che escono “ad orario”, e che quindi non fanno gli straordinari, sono quelli a cui io do valutazioni più basse: quindi chi esce più tardi è più bravo.
- Quando non sei “presente” è perché sei in ferie o in malattia, quindi se non ci sei vuol dire che non stai lavorando. Perché in realtà anche io quando non sono qui (o non mi vedono) magari lavoro un po’ meno (alzi la mano chi non lo hai mai fatto). Perciò se ti vedo in ufficio allora stai lavorando.
Il meccanismo è talmente radicato che senza che ne accorgiamo lo usiamo anche con i nostri figli (hai fatto i compiti? sicuro? fammi vedere) o nei casi più gravi anche con i nostri partner (ho visto che lo guardavi, perché?)
Quando mi trovo ad affrontare con i manager questi argomenti il mio suggerimento è quello di definire obiettivi che siano veramente tali , quindi precisi, misurabili e che responsabilizzino il collaboratore ma soprattutto che le conseguenze (dal feedback negativo in poi) siano chiare per tutti. Il manager deve “gestire” (dall’inglese to manage) altrimenti lo chiameremmo un controllore, ruolo che per altro ha un senso nelle catene di montaggio (ricordo gli addetti ai tempi e metodi agli albori della qualità).